lunedì 27 gennaio 2014

Se il mondo non è più di nessuno. "Nessuno controlla il mondo" di Charles Kupchan


 

di Damiano Palano
Nelle prime ore del 17 gennaio 1991, quando ebbe inizio l’operazione Desert Storm contro l’Iraq di Saddam Hussein, scoprimmo improvvisamente che la Guerra fredda era davvero finita. Proprio allora diventò infatti evidente la portata della supremazia degli Stati Uniti, una solitaria superpotenza che non pareva temere le minacce di alcun rivale. Charles Krauthammer definì la nuova fase come un “momento unipolare”. E negli anni seguenti molti si spinsero a prevedere che quel “momento” fosse destinato a trasformarsi in una vera e propria “era”. Procedendo in netta controtendenza, Charles Kupchan, uno dei più originali politologi americani, iniziò invece a intravedere all’orizzonte un processo che avrebbe scalzato gli Stati Uniti dal loro ruolo di egemone globale. Qualche mese dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001, pubblicò infatti un testo che fin dal titolo – La fine dell’era americana (Vita e Pensiero) – contestava radicalmente l’idea di un’era unipolare. Sviluppando un’analisi di lungo periodo sulla graduale ascesa degli Usa, Kupchan riteneva che la stagione dell’egemonia di Washington fosse vicina alla conclusione. A ciò spingevano modificazioni interne alla società americana, ma soprattutto l’emergere di altre grandi potenze, che avrebbero dato forma a un nuovo multipolarismo. Non tutte le ipotesi formulate allora sono state confermate dagli eventi successivi. Ed è sufficiente ricordare che Kupchan prevedeva allora che l’Unione Europea sarebbe diventata la principale rivale degli Usa. Ciò nonostante, a dieci anni di distanza la maggior parte delle idee del politologo – che allora parevano poco più che provocazioni intellettuali – sono diventate luoghi comuni. Non tanto perché gli Stati Uniti siano condannati a un declino irreversibile, quanto perché è ormai quasi scontato riconoscere che l’ascesa della Cina e di potenze regionali come il Brasile, l’India, il Sudafrica e la ‘vecchia’ Russia renderà effettivamente multipolare il sistema internazionale.

Con il nuovo libro, Nessuno controlla il mondo. L’Occidente e l’ascesa del resto del mondo. La prossima svolta globale (il Saggiatore, pp. 285, euro 19.50), Kupchan torna nuovamente sulle sue previsioni e cerca di intravedere quali saranno le incognite principali del futuro. Anche in questo caso le sue tesi sono radicali. In primo luogo, sostiene che il prossimo non sarà un ‘secolo cinese’ e che dunque Pechino non assumerà il ruolo avuto da Washington nel Novecento. In secondo luogo, contesta anche l’idea che possa prendere forma una sorta di ‘Chimerica’, e cioè che Cina e Stati Uniti possano collaborare nella gestione della politica mondiale in una sorta di G-2 permanente. La convinzione di Kupchan è invece che nei prossimi decenni il mondo non apparterrà a nessuno. Il mondo del futuro sarà cioè multipolare e politicamente plurale. Ci sarà un numero piuttosto elevato di grandi potenze. E ciascuna di esse si farà portatrice di una propria concezione della modernità, oltre che di una visione specifica di cosa sia un ordine internazionale ‘giusto’ e ‘legittimo’. In sostanza, le nuove potenze emergenti cercheranno di ridefinire le regole del sistema internazionale, conformandole sulla base dei loro valori e interessi. Un nuovo ordine potrà così fondarsi su organizzazioni sovranazionali regionali, capaci di assumere maggiori responsabilità nelle proprie aree di riferimento. Ma implicherà soprattutto una ridefinizione degli standard che stabiliscono la legittimità e la rispettabilità internazionale di uno Stato. E anche in quest’ultimo caso Kupchan procede in controtendenza rispetto alle tesi dell’“era unipolare”, perché ritiene che l’Occidente debba accantonare la prospettiva di una piena diffusione della democrazia e sostituirla con l’aspirazione a una “governance responsabile”. In altre parole, uno Stato dovrebbe essere considerato come un degno attore internazionale, a prescindere dalla forma di regime politico che adotta, se si impegna a promuovere il benessere e la dignità dei propri cittadini. D’altronde, secondo il politologo il nuovo mondo ‘post-occidentale’ impone una sfida soprattutto culturale. La supremazia economica, scientifica e tecnologica che consentì l’affermazione dell’Occidente sul pianeta è ormai solo un ricordo. Questo significa innanzitutto che dobbiamo modificare il nostro modo di guardare la politica globale. Ma significa soprattutto che dobbiamo rinunciare a pensare che la Storia sia irrimediabilmente finita nel novembre del 1989 e che la democrazia liberale sia davvero il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica del genere umano.
Damiano Palano

lunedì 20 gennaio 2014

La filosofia del coraggio e il coraggio della verità. Una recensione a "Coraggio" di Diego Fusaro su "Governare la paura"



Questa recensione del volume di Diego Fusaro, Coraggio (Raffaello Cortina, Milano, 2012, pp. 179) è apparsa sul numero 2013 della rivista "Governare la paura, diretta da Laura Lanzillo. 

di Damiano Palano

Nella Danza immobile, pubblicato poco prima dell’improvvisa scomparsa, Manuel Scorza abbandona i toni del realismo magico che avevano contraddistinto i suoi precedenti romanzi per adottare una chiave più intimista, da cui trapela il senso di un fallimento al tempo stesso politico ed esistenziale. Il romanzo, come scrive lo stesso Scorza, è una sorta di «contrappunto fra un guerrigliero e un ex guerrigliero», e al tempo stesso «un conflitto fra due uomini che devono scegliere fra l'Amore e la Rivoluzione» (M. Scorza, La danza immobile, Feltrinelli Milano, 1983, p. 19). Santiago, uno dei due protagonisti, abbandona infatti la causa rivoluzionaria, rimanendo in esilio e scegliendo l’amore per Marie-Claire, mentre l’altro, Nicolàs, resta fedele alla rivoluzione e lascia Parigi, oltre che l’amata Francesca, per tornare in America Latina. Anche per la netta contrapposizione fra Santiago e Nicolàs, Marco Revelli ha ritrovato nel libro di Scorza una raffigurazione emblematica delle derive speculari cui conducono la militanza politica e la chiusura egoistica nel privato. In un punto cruciale del romanzo, Santiago – «l’uomo che si era legato ai propri compagni con un patto di sofferenza nel presente in nome del futuro, e si era educato a una spietata disciplina per poter sognare un giorno un mondo di esseri liberi» – confessa d’altronde che la militanza lo aveva trasformato in «una macchina per ammazzare e morire». E, così, osserva Revelli, la rinuncia di Santiago alla Rivoluzione è soprattutto una scelta a favore di una vita intesa come «mondo privato degli affetti, come amore ma anche amicizia non segnata dal sospetto, curiosità non spenta dal dovere, relazione non mediata dall’organizzazione, Io non fagocitato dal Noi, tempo vissuto e non investito per un fine lontano» (M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino, 2001, p. 276). Se la coppia di Santiago e Nicolàs restituisce dunque il dissidio fra Io e Noi, fra la dimensione ‘privata’ (ed egoistica) degli affetti familiari e la dimensione ‘politica’ di un impegno totalizzante, essa viene anche a esemplificare nitidamente due opposte – e forse inconciliabili – visioni della temporalità. Da un lato, il tempo ‘privato’ di Santiago è interamente schiacciato sul presente, sul qui e ora, dal momento che – rifiutando di tornare in Perù (e dunque il rischio quasi certo della morte) – tradisce la rivoluzione perché «solo i vivi hanno una donna, i morti no…» (M. Scorza, La danza immobile, cit., p. 163). Dall’altro, il tempo ‘politico’ di Nicolàs è tutto proiettato verso il futuro. Un futuro tanto lontano che neppure si intravede all’orizzonte, ma in cui stanno scritte la vittoria della causa rivoluzionaria e la realizzazione della giustizia e dell’uguaglianza fra gli uomini. E un futuro che per questo, come replica Nicolàs al vecchio amico, è in grado di giustificare persino l’estremo, irrimediabile sacrificio della vita: «La morte di un combattente significa forse la sua scomparsa? Non veniamo forse preparati ad affrontare la morte, e a morire se è necessario, sapendo che alla lunga, prima o poi, la nostra morte sarà la vita degli altri?» (ibi, p. 161).
Proprio nella misura in cui offre una plastica raffigurazione del gesto estremo di un militante politico che perde la vita in nome della rivoluzione (e non importa quale sia la rivoluzione), il sacrificio di Nicolàs può essere considerato come un formidabile esempio di quella virtù proteiforme e sfuggente cui è dedicato Coraggio di Diego Fusaro (Raffaello Cortina, Milano, 2012). Inserito nella collana «Moralia», diretta da Roberto Mordacci e Andrea Tagliapietra, il libro di Fusaro si propone innanzitutto una ricostruzione della traiettoria percorsa dal concetto di coraggio nella storia della filosofia occidentale. Ma, dall’esame condotto da Fusaro, non può che emergere innanzitutto la natura del tutto «paradossale» di questa virtù: una natura che, in effetti, la rende difficilmente circoscrivibile all’interno di una ben determinata fenomenologia, e che inoltre risulta abissalmente distante dalle altre grandi virtù celebrate dell’Occidente (se non addirittura antitetica rispetto ad esse). Già il militare Lachete, interrogato da Socrate, confessa di non saper dire «cosa» sia il coraggio, benché sia avvezzo a darne prova sui campi di battaglia. Ma non è evidentemente solo Lachete a scontarsi con questa difficoltà, tanto che Fusaro osserva: «il coraggio è la virtù che più resiste all’intellettualismo e che più sfugge alla sua presa, lasciandosi definire in modo sempre approssimativo e mai esauriente» (p. 8). A rendere così complicato individuare il cuore del coraggio è d’altronde il fatto che vengono anche abitualmente definite come «gesti coraggiosi» le azioni più differenti. Pur dinanzi a un simile groviglio concettuale, Fusaro, raccogliendo le indicazioni di Vladimir Jankélévitch, avanza però una proposta definitoria per cui il coraggio è «la spontaneità inaugurale di una dinamica dell’agire appassionato e disinteressato, teso verso un fine assiologicamente connotato in termini positivi e tale da giustificare un’eroica sopportazione di ostacoli, pericoli e rischi, fino al grado estremo della morte» (p. 15). In questo senso, il coraggio è dunque vissuto sempre al presente, e non tollera differimenti se non al prezzo di svanire nella giustificazione dell’inazione o della soggezione al comando. Ma rimane comunque proiettato verso il futuro: «Virtù dell’hic et nunc, il coraggio è sempre al presente, anche se opera immancabilmente in vista del futuro verso cui l’azione coraggiosa è diretta. Più precisamente, essere coraggiosi non significa forse sacrificare l’istante presente in vista di quello futuro, identificando nel primo la condizione indispensabile per l’attuazione del secondo?» (p. 16). E ovviamente – dal momento che richiede, per manifestarsi, un rischio (non solo potenziale) – è anche una passione che presuppone il pericolo e che, in una certa misura, si alimenta della paura pur senza rimanerne schiacciata. In questo senso, scrive Fusaro, «non può sfuggire come la paura costituisca la condicio sine qua non del coraggio, che sorge e si manifesta sempre e solo al cospetto del timore, nel tentativo di disciplinarlo, di vincerlo, o anche solo di arginarlo temporalmente» (p. 40). E, dunque, il coraggio è «affermazione e, insieme, negazione della paura», o, ancora, «paura riconosciuta e superata, con la conseguenza che le azioni coraggiose sono compiute non in assenza del timore, ma malgrado la sua presenza, sulla quale prevale la libera scelta del perseguimento del fine prefissato» (p. 41).





lunedì 13 gennaio 2014

La fabbrica della paura nel teatro del Mago Cipolla. Una recensione a "Suggestione" di Andrea Cavalletti su "Governare la paura"

Questa recensione del volume di Andrea Cavalletti, Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico (Bollati Boringhieri, 2011, pp. 175), appare sul numero 2013 della rivista "Governare la paura", diretta da Laura Lanzillo

di Damiano Palano

Come La morte a Venezia, anche Mario e il mago, una delle più riuscite novelle di Thomas Mann, ebbe origine da un soggiorno italiano. Sul finire dell’estate del 1926 lo scrittore trascorse infatti un breve periodo a Forte dei Marmi, e proprio durante quella breve vacanza gli capitò di assistere a un inquietante spettacolo di illusionismo. Nella novella, Forte dei Marmi diventò alcuni anni dopo Torre di Venere, mentre dietro il personaggio di Cipolla, il sinistro ipnotizzatore deforme di Mario e il mago, si nascondeva probabilmente – come ha suggerito fra l’altro Clara Gallini trent’anni fa, nel suo classico volume recentemente ripubblicato La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano (L’Asino d’oro, Roma, 2013; I ed. Feltrinelli, Milano, 1983) – l’illusionista toscano Gabrielli, che in quegli anni conquistò una certa popolarità grazie alle sue esibizioni. Nel racconto di Mann venivano ripercorse tutte le sequenze dello spettacolo, dall’atmosfera di attesa che precede l’ingresso in scena, ai primi scambi polemici tra il mago e il pubblico diffidente, agli esperimenti di trasmissione del pensiero, alla vera e propria dimostrazione delle capacità di suggestione di Cipolla. L’esibizione raggiungeva infine il culmine quando Cipolla-Gabrielli induceva il timido cameriere Mario a confessare la sua segreta passione amorosa e quindi a baciare lascivamente il mago, prima di essere risvegliato da uno schiocco di frusta. Del tutto imprevisto, giungeva però l’epilogo tragico. Perché, destatosi dal sonno ipnotico e resosi conto del ridicolo in cui era stato gettato dall’illusionista, Mario consumava la propria vendetta uccidendo Cipolla con un colpo di pistola. 
Naturalmente l’esibizione di Gabrielli ebbe nella realtà tutt’altro epilogo, perché il cameriere, dopo essere stato soggiogato ed esposto al ludibrio del pubblico, si limitò a fuggire comicamente dal palco. Per il resto la novella restituiva probabilmente ciò che, più o meno, era avvenuto davvero nel baraccone della Versilia. Ambientata in un’Italia in cui muoveva i primi passi la dittatura fascista, la storia doveva però caricarsi immediatamente di significati simbolici, e diversi lettori – tra i primi György Lukáks e Hans Mayer – riconobbero in Mario und der Zauberer la metafora di un paese prigioniero del potere ‘magnetico’ di Benito Mussolini. E, in questo senso, non era d’altronde probabilmente fortuito che Mann attribuisse a Cipolla una filosofia per cui «comandare e ubbidire rappresentano insieme un solo principio», per cui «un pensiero è compreso nell’altro, come popolo e duce sono compresi l’uno nell’altro», e per cui «il lavoro, il durissimo ed estenuante lavoro, è in ogni modo opera sua, del duce e organizzatore, che in sé identifica volontà e ubbidienza» (T. Mann, Mario e il mago, in Id., Romanzi brevi, Mondadori, Milano, 1977, p. 220). La lettura suggerita da Lukáks e Mayer non esauriva però tutte le possibili implicazioni ‘politiche’ di un racconto che per molti versi può essere considerato come una metafora inquietante delle dimensioni più oscure del comando e dell’obbedienza. E proprio per questo la novella di Thomas Mann viene a offrire il filo robusto attorno a cui si annoda la riflessione compiuta da Andrea Cavalletti in Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico (Bollati Boringhieri, 2011, pp. 175). Una riflessione che, scomponendo in frammenti le sequenze di Mario und der Zauberer, si muove attraverso digressioni, slittamenti analogici, approfondimenti filosofici, ognuno dei quali risulta sempre affascinante e gravido di sollecitazioni. 



venerdì 10 gennaio 2014

"La paura della natura". Governare la catastrofe tra scienze umane e scienze sociali. Un numero speciale di "Governare la paura" disponibile on-line



Da qualche giorno è on-line la special-issue 2013 della rivista "Governare la paura", dedicata a 

"La paura della natura". Governare la catastrofe tra scienze umane e scienze sociali



Sommario

Saggi e Note

Presentazione. Governare la catastrofe fra scienze umane e scienze sociali
Di Maria Laura Lanzillo

Senso della fine e finitudine umana. Rappresentazione della catastrofe in “The Road” di Cormac McCarthy
Di Rosanna Castorina

Rischio e catastrofe. Il fallimento di scienza ed istituzioni: trovare soluzioni precarie in una vita precaria
Di Angelo Abignente, Francesca Scamardella

Liberalismo politico e responsabilità ecologica. È concettualmente sostenibile il “Green Liberalism”?
Di Enrico Maestri

Le nuove forme di disagio tra mitologie del progresso e immaginari catastrofici: implicazioni pedagogiche
Di Alessandro Ferrante

Il difficile governo della catastrofe. Appunti per una teoria critica
Di Valerio Nitrato Izzo

Il principio di precauzione e la governance dell’incertezza
Di Guido Gorgoni

Un’esistenza indivisibile. Complessità, “governance” e responsabilità nell’età globale
Di Roberto Franzini Tibaldeo

L’armonia tra il sé, l’altro e il cosmo come norma. La costituzionalizzazione della cultura tradizionale nei Paesi andini e in prospettiva comparata
Di Silvia Bagni

Il rapporto tra comunità politica internazionale e società civile nell’ambito della protezione ambientale e della lotta ai cambiamenti climatici. Quando il principio di precauzione diventa un obbligo morale prima ancora che uno strumento decisionale
Di Valeria Barbi, Marco Borraccetti

Ecofobia e disastri naturali nelle narrazioni catastrofiche e apocalittiche
Di Adele Tiengo Tiengo

La paura allo specchio. Il terremoto in Cile di Juan Villoro
Di Francesco Aloe

La fine di tutte le cose. Moralità e terrore nell’analisi kantiana del sentimento del sublime
Di Giulia Venturelli

Recensioni

La Fabbrica della paura nel teatro del "mago Cipolla". Recensione di Andrea Cavalletti, Suggestione. Potenza e limiti del fascino politico, Bollati Boringhieri, 2011, pp. 175.
di Damiano Palano

La filosofia del coraggio e il coraggio della verità. Recensione di Diego Fusaro, Coraggio, Raffaello Cortina, Milano, 2012, pp. 179.
di Damiano Palano

Un manifesto di criminologia politica per una società democratica. Recensione di Adolfo Ceretti e Roberto Cornelli, Oltre la paura. Cinque riflessioni su criminalità, società e politica, Feltrinelli, Milano 2013, pp. 250.
Di Samanta Arsani

lunedì 6 gennaio 2014

Tecnocapitalismo, insidia della "realtà ibrida". Un libro di Ayesha e Parag Khanna



di Damiano Palano

Questa recensione a Ayesha e Parag Khanna, L’età ibrida. Il potere della tecnologia nella competizione globale (Codice, pp. 114, euro 11.90), è apparsa su "Agorà - sette", supplemento culturale di "Avvenire", il 27 dicembre 2013.

William Gibson, il fondatore del cyberpunk, scrisse una volta che un autore di fantascienza non ha necessariamente bisogno di immaginare il futuro, perché “il presente è già abbastanza inquietante”. E non è affatto casuale che Ayesha e Parag Khanna pongano la frase dello scrittore americano in apertura del loro L’età ibrida. Il potere della tecnologia nella competizione globale (Codice, pp. 114, euro 11.90). Il volumetto, che si colloca in quel filone dagli incerti confini che è la ‘futurologia’, cerca infatti di immaginare le trasformazioni che subiranno le nostre società nei prossimi decenni. E dal quadro non mancano certo i motivi di inquietudine. Secondo i due analisti la nuova “età ibrida”, contrassegnata dalla fusione tra diverse tecnologie, produrrà innanzitutto conseguenze radicali sul piano politico. La potenza non sarà più determinata dall’estensione geografica o dal peso demografico, ma dalla capacità di produrre innovazione tecnologica. Gli Stati conteranno sempre meno, mentre un ruolo decisivo sarà giocato dalle grandi città globali, centri di sviluppo delle conoscenze. E, dal punto di vista economico, nel “tecno-capitalismo” diventerà sempre più difficile distinguere tra casa, ufficio e lavoro. Le insidie maggiori deriveranno però dalle implicazioni sugli esseri umani. La tecnologia ci consentirà infatti non soltanto di modificare il nostro modo di interagire con l’ambiente, ma anche di creare rappresentazioni di noi stessi solo parzialmente (o per nulla) reali. Col risultato che la “realtà ibrida” potrebbe apparirci alla fine più seducente della vita normale, e costringerci così ad adattarci ai nostri avatar virtuali. 
Che questi rischi non siano solo ipotesi è evidente già oggi. I Khanna si richiamano d’altronde alla lezione di Alvin e Heidi Toffler, due pionieri della ‘futurologia’ che negli anni Settanta previdero l’avvento della società dell’informazione, prefigurando al tempo stesso le nuove fragilità che il cambiamento avrebbe prodotto. Anche l’“età ibrida” è destinata a presentare le medesime ambivalenze. I problemi principali del nostro futuro consisteranno così proprio nella difficoltà di gestire a livello etico e psicologico le promesse dell’immaginario tecnologico. Un immaginario che presenterà sempre più la tecnologia come uno strumento onnipotente, capace di liberare gli uomini dalla fatica, dall’ansia e dal dolore, oltre che di modificare persino la “natura umana”. E se conosciamo qual è stato nel Novecento il costo del secolo delle ideologie, non possiamo neppure immaginare quale prezzo dovremo pagare per rincorrere le illusioni della nuova “età ibrida”.

Damiano Palano