mercoledì 25 settembre 2013

Dalle fazioni allo Stato dei partiti. Una recensione a “Partito” di Raffaele Vacca

Questa recensione di Raffaele Vacca a Partito è apparsa su «Il Denaro» di mercoledì 11 settembre 2013.

di Raffaele Vacca

Il fascismo era fondato sul partito unico che aveva annullato gli altri, pretendendo che tutti i cittadini non si dividessero in porzioni della società, come organi di un corpo vivente, ma fossero uniti in un unico corpo.
Dopo la sua caduta, la società italiana, che era stata sollecitata dal fascismo alla mobilitazione di massa, si affidò per la ricostruzione ai partiti che erano risorti ed a quelli che erano nati. Per cui Pietro Scoppola poté definire quella italiana la Repubblica dei partiti, specialmente dal 1945 al 1990. All’inizio essi ebbero grande splendore. Poi iniziò la loro crisi e, di conseguenza, quella della Repubblica, che si manifestò con richieste di modifiche e cambiamenti.
Al “Partito” ha ora dedicato un denso saggio Damiano Palano, che è docente di Scienza politica nell’Università Cattolica di Milano. È stato recentemente pubblicato da Il Mulino nella collana “Lessico della politica”. Damiano Palano in questa sua opera ripercorre la storia del partito dai greci ai nostri tempi, ricordando come “nell’antichità, nel Medioevo e nella prima modernità non esistono organismi riconducibili all’immagine contemporanea del partito”. Questa iniziò a delinearsi dopo la Rivoluzione francese, quando si frantumò l’Antico Regime.
Nella seconda parte dell’opera, mette in evidenza come, nella seconda metà del Novecento, si sia passati dalla stagione gloriosa, durante la quale la presenza di partiti era ritenuta essenziale, anche per una personale preparazione politica, ad un tempo in cui si avverte disagio, e discredito per i partiti, che alimentano la crisi della democrazia. Nonostante ciò, Il “Partito” è un concetto che il Novecento ha trasmesso al Duemila, e che questo deve riconsiderare nella sua storia e nel suo attuale essere, per contribuire ad alimentare quella democrazia, che è ideale e speranza, che in ogni luogo ed in ogni tempo debbono essere quotidianamente attuati. 
A tutto ciò ben contribuisce il libro di Palano, che opportunamente qui e là ricorda alcune fondamentali definizioni di Partito. Ad esempio quella di Max Weber, espressa quasi un secolo fa, per il quale i partiti sono “associazioni fondate su un’adesione (formalmente) libera, costituire al fine di attribuire ai propri militanti attivi possibilità (ideali o materiali) per il perseguimento di fini oggettivi o per il perseguimento di vantaggi personali, o per tutti e due gli scopi”. O quella di Giovanni Sartori, per il quale il distinguersi del partito dalle consorterie, dalle clientele, dalle fazioni fa sì che i partiti “non siano semplicemente ‘parti’, ma si inseriscono in un contesto contrassegnato da un certo grado di pluralismo e dall’accettazione delle rispettive posizioni”.
Damiano Palano ricorda come, decenni addietro, ci sia stato un tempo in cui il “Partito”, “in un mondo in disfacimento”, sembrò ad alcuni l’unica via di salvezza, consentendo che l’”angoscia individuale, i sensi di colpa, persino gli errori del singolo” trovassero finalmente un senso. Ma ricorda anche che, nel 1940, quando l’Europa era travolta dai totalitarismo, Simone Weil, nel suo “Manifesto per la soppressione dei partiti politici”, scrisse che il partito “è una macchina per fabbricare passioni collettive”, è “un’organizzazione costruita in modo da esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte”. Nel capitolo conclusivo, mette in luce come i partiti, nati o rinati per contribuire a realizzare un’autentica democrazia in Italia, abbiano sviluppato nel loro interno una tendenza totalitaria, stringendo i loro membri e gli stessi rappresentanti politici in una ferrea disciplina ideologica, riducendo così l’effettiva libertà di espressione. E postisi al vertice dello Stato, hanno usato risorse pubbliche per finalità contrastanti con l’interesse generale, “che vanno dall’assegnazione degli incarichi nella pubblica amministrazione con criteri clientelari, all’accaparramento del finanziamento pubblico, all’erogazione della spesa pubblica per fini elettoralistici”.

Raffaele Vacca

lunedì 23 settembre 2013

Il lungo tramonto dell’Europa nella riflessione del secolo breve. «Il pensiero politico del XX secolo» di Rocco Pezzimenti



di Damiano Palano


Questa recensione al volume di Rocco Pezzimenti, Il pensiero politico del XX secolo. La fine dell’eurocentrismo (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, pp. 775, euro 34.00), è apparsa sul sito dell'Istituto di Politica - Rdp online.


Quando l’editore italiano di Eric J. Hobsbawm decise di pubblicare la traduzione di Age of Extremes con il titolo più accattivante Il secolo breve, probabilmente non sospettava neppure lontanamente il successo che la formula avrebbe riscosso. Con la forza di uno slogan azzeccato, quell’espressione è infatti entrata stabilmente nel lessico giornalistico, e da allora, senza più legami sostanziali con il testo dello storico britannico, è diventato abituale pensare al Novecento come a quel «secolo breve» aperto dalla Prima Guerra Mondiale e chiuso dal crollo dell’Unione Sovietica. A ben guardare, quei settantacinque anni possono essere però collocati in un ciclo più lungo, ed è proprio una lettura di questo tipo a tenere insieme i saggi raccolti (e rielaborati) da Rocco Pezzimenti in Il pensiero politico del XX secolo. La fine dell’eurocentrismo (Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013, pp. 775, euro 34.00). Naturalmente il discorso di Pezzimenti non si riferisce tanto alle tappe della storia mondiale, quanto alle traiettorie del pensiero politico del Novecento, un secolo che appare tutt’altro che «breve», perché in realtà «s’incardina nei temi cruciali, e non ancora del tutto esauriti dell’Ottocento, e che si protende nel nostro con la sua ricerca di stabilizzazione e di pace in vista di un nuovo ordine mondiale» (p. 8).
Non è dunque casuale che la ricostruzione di Pezzimenti incominci con la famosa Introduzione engelsiana del 1895 al vecchio opuscolo di Marx sulle Lotte di classe in Francia dal 1848-1850. Proprio in quel testo, Engels – che in realtà si limitava a mettere in questione la «tattica» fino a quel momento seguita dal movimento socialista, ma non certo le capacità di previsione storica del socialismo scientifico e dunque la prospettiva generale del crollo del capitalismo – in qualche modo apriva la prima grande crisi teorica del marxismo, all’interno della quale sarebbero emerse le diverse opzioni ‘revisioniste’, oltre che la prospettiva di Lenin, destinata a diventare il cardine di una nuova ortodossia dopo l’Ottobre sovietico. E proprio il pensiero e l’eredità politica di Lenin, che già segnano la fuoriuscita del marxismo dal cuore della Vecchia Europa, sono al centro di un lungo saggio, in cui Pezzimenti non manca di segnalare, insieme agli elementi di originalità, l’influenza della tradizione religiosa che contrassegna la prospettiva escatologica dei rivoluzionari russi: «C’è tra tutti gli intellettuali russi», scrive infatti Pezzimenti, «la convinzione che una nuova età stia per realizzarsi e che la loro terra sia una sorta di messianica terra promessa dalla quale partirà il rinnovamento per il mondo intero, la rivoluzione che rigenererà l’umanità tutta» (p. 41). Il tramonto del «mondo di ieri» e l’avvento della «mobilitazione totale», attorno al tragico snodo della Prima guerra mondiale, portano comunque alla luce anche nella riflessione europea una serie di nodi che risalgono al secolo precedente, e che attengono principalmente alle strategie di integrazione delle masse nella vita dello Stato e dunque alla ridefinizione dei meccanismi della rappresentanza politica dopo la formazione dei grandi partiti popolari. Pezzimenti ricostruisce così le trame del fitto dibattito sulla crisi del parlamentarismo e sulle ambizioni della democrazia plebiscitaria, oltre che sulle basi dei nuovi regimi autoritari e totalitari. Ma, nella sua analisi, non possono naturalmente mancare né gli Stati Uniti, la nuova grande potenza che irrompe sulla scena della politica mondiale nel 1917 proponendo un nuovo modo di vita e un nuovo concetto di democrazia, né la Repubblica Popolare Cinese, segnata ancora dalla personalità di Mao, dalle sue tante mitizzazioni e demitizzazioni. E, dopo un esame delle trasformazioni del liberalismo e del marxismo e una ricca riflessione sulla dottrina sociale della Chiesa (che peraltro si intreccia con la ricostruzione dei fermenti che in America Latina diedero forma alla teologia della liberazione), è quasi inevitabile che il percorso si concluda con il pensiero politico islamico, non certo ridotto alla declinazione islamista, ma invece considerato nelle diverse espressioni che ha conosciuto nel corso del Novecento.

Esaminato con uno sguardo di lungo periodo, il Novecento non appare allora tanto breve come vuole la formula di Hobsbawm. Ma, soprattutto, è davvero un secolo da cui emerge, come grande tendenza, il declino politico dell’Europa. Un declino avviato in modo emblematico nel 1917 dalla rivoluzione bolscevica e dall’ingresso degli Stati Uniti nella Grande guerra, e di cui il processo di integrazione europea non è riuscito per ora invertire la marcia, forse non solo per una debolezza politica, ma anche – come osserva Pezzimenti nelle pagine introduttive, non senza qualche nota di esplicito pessimismo – per l’assenza di un pensiero davvero adeguato ai tempi: «Per la prima volta l’Europa comincia una guerra che non ha la capacità di finire con le proprie forze aprendo quel declino da cui non riesce ancora a uscire avendo, tra l’altro, dimenticato la lezione di alcuni grandi leader del secondo dopoguerra. Costoro ben compresero che, per riacquistare un ruolo di primo piano, l’unione monetaria era condizione importante ma non unica. Lo prova il fatto che intrapresero anche la via di una energia e di una difesa comune, lasciando presagire anche una politica estera comune. Rimasero inascoltati e persino dimenticati» (p. 9).


Damiano Palano

sabato 21 settembre 2013

"Il partito politico: storia, realtà, prospettive". Seminario didattico residenziale del Laboratorio di analisi politica 2013 (Fondazione-Istituto Gramsci Emilia-Romagna). Bagnacavallo 5-6 ottobre 2013




Il partito politico: storia, realtà, prospettive

Seminario didattico residenziale del Laboratorio di Analisi Politica 2013 

Fondazione Istituto Gramsci Emilia-Romagna 

Responsabile scientifico: Carlo Galli


Bagnacavallo  sabato 5 e domenica 6 ottobre 2013




Una nuova iniziativa della Fondazione Gramsci EmiliaRomagna che si innesta sul tronco dell’esperienza ormai più che decennale del Laboratorio, per proporre un momento di incontro e di riflessione guidata e interattiva fra docenti e partecipanti, che si svolgerà in forma concentrata e stanziale presso il Complesso monumentale di San Francesco a Bagnacavallo (RA).


Il seminario didattico, alla sua prima edizione, non è quindi una semplice scuola di politica, ma un’occasione per leggere con la necessaria profondità storica e concettuale alcuni dei nodi più delicati del nostro tempo. Non a caso la prima edizione avrà come tema la questione del partito, che proprio in questa fase sta dimostrando la propria crucialità.

 

Programma


SABATO5 OTTOBRE


9.30  10.00


Registrazione partecipanti e assegnazione delle camere


10.00  12.00


Carlo Galli Il partito e la politica


12.00  14.00


Discussione


14.00


Pausa pranzo


15.00  17.00


Damiano Palano Il partito nella storia del pensiero politico


17.00  19.00


Discussione


20.00


Cena


DOMENICA6 OTTOBRE


9.00


Colazione


10.00  12.00


Michele Prospero Il partito politico: le interpretazioni


12.00  14.00


Discussione


14.00


Buffet di saluto finale


Come partecipare


La partecipazione è prevista per un numero massimo di 40 persone.


Per iscriversi al seminario didattico è necessario compilare il modulo apposito, inviarlo all’indirizzo


segreteria@iger.org e, una volta avuta conferma dell’iscrizione, versare una quota di 100,00 euro


secondo le modalità indicate.


La quota di iscrizione comprende la partecipazione al seminario, tutti i pasti previsti, il


pernottamento per la notte di sabato 5 presso l’Antico Convento di San Francesco Ostello di


Bagnacavallo (in camere da 4/6 persone).


Per qualsiasi dubbio o chiarimento potete contattare la segreteria organizzativa:


Matilde Altichieri 051.231377, 347.6051256


Come raggiungere Bagnacavallo


Bagnacavallo è raggiungibile facilmente con un’ora di treno dalla stazione di Bologna Centrale con


collegamenti frequenti che partono circa ogni ora.


Una volta arrivati alla stazione di Bagnacavallo l’ostello è a 600 metri in via Luigi Cadorna 10 (il


sabato mattina è possibile prendere il treno in partenza dalla stazione di Bologna alle ore 7.54 con


arrivo a Bagnacavallo alle ore 8.52)

In macchina prendere la A14 in direzione Ancona/Ravenna uscita Bagnacavallo

martedì 17 settembre 2013

Il triangolo si è rotto? Annotazioni a margine del dialogo tra Fabrizio Barca e Piero Ignazi sul rapporto tra partiti, società e Stato.



di Damiano Palano

Nell’aprile del 2013, mentre il governo Monti – dopo una lunga agonia – tramontava definitivamente, uno dei ministri dell’esecutivo, Fabrizio Barca, diffondeva una sorta di manifesto dall’ambizioso titolo Un partito nuovo per un nuovo governo. Con quel documento Barca abbandonava i panni del ‘tecnico’ per indossare quelli del politico, o, meglio, dell’intellettuale-militante che cerca di mettere le proprie competenze e la propria esperienza al servizio di una parte politica. Come esplicitava il suo sottotitolo, Memoria politica dopo 16 mesi di governo, la riflessione di Barca nasceva dall’esperienza proprio dell’esecutivo Monti, ma, a differenza di quanto avviene di solito nelle analisi degli osservatori, il focus non era tanto sulle riforme da fare e sulle scadenze da rispettare per ‘salvare il Paese’, quanto sul ‘metodo’ con cui perseguire ogni progetto di riforma. E il ‘metodo’ finiva col coinvolgere proprio i partiti, sovente raffigurati come l’origine di molti mali, e invece rappresentati da Barca come l’anello debole da rafforzare e ripensare. In questo senso, la Memoria costituisce un’autentica eccezione nel dibattito pubblico italiano, perché era probabilmente dagli anni Settanta che la forma-partito non veniva collocata al centro della discussione delle élite dirigenti (o quantomeno al centro di una discussione non coincidente con la liquidazione del modello novecentesco del partito di massa e con la generica e semplicistica esaltazione di un partito ‘leggero’ e aperto alle istanze della società civile).
La riflessione di Barca non era dedicata genericamente ai partiti, ma si concentrava piuttosto sulla forma di un nuovo partito di sinistra, inevitabilmente identificato con il Partito Democratico (o con ciò che il Pd dovrebbe diventare in un prossimo futuro). Ciònonostante, la Memoria sviluppava temi e argomentazioni molto lontani dalla più classica tradizione della sinistra italiana, che pure – da Gramsci a Togliatti, fino a Berlinguer – ha dedicato una parte consistente della propria riflessione alla forma del «Partito». In effetti il discorso di Barca – che, vale la pena ricordarlo, era il discorso di un ‘tecnico’, impegnato per anni ai vertici della macchina amministrativa dello Stato – si proponeva come un tentativo di mettere a frutto la lezione dell’esperienza di governo e di superare alcuni degli ostacoli contro cui l’azione dell’esecutivo Monti si era scontrata. In altre parole, il manifesto di Barca coinvolgeva i partiti, ma proprio in quanto i partiti si erano rivelati uno strumento inefficace dal punto di vista dell’azione di governo. E la causa principale era così individuata in un rapporto viziato tra i partiti «Stato-centrici» e la macchina arcaica dello Stato. «In Italia», scriveva per esempio, «partiti Stato-centrici, macchina dello Stato arcaica ed élites che li governano vanno d’accordo, sostenendosi reciprocamente e producendo un equilibrio perverso, di sottosviluppo: una ‘fratellanza siamese… che porta al catoblepismo» (F. Barca, Un partito nuovo per un buon governo. Memoria politica dopo 16 mesi di governo, p. 13). Una delle conseguenze della «fratellanza siamese» erano sia la diffidenza dei cittadini nei confronti dei partiti sia l’«insensato conflitto generazionale» (p. 14), ma l’aspetto per molti versi più significativo che scaturiva da quell’intreccio – come sottolineava Barca in uno dei passaggi chiave – era l’inefficienza dell’azione pubblica: «Il combinato di Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica tende a impedire politiche pubbliche efficaci e dunque buon governo, bloccando tutte le fasi del processo ricorsivo di costruzione dell’azione pubblica. La carenza di partiti con carattere e missione propri rende inadeguata e assolutamente opaca la fase iniziale di determinazione degli indirizzi delle politiche pubbliche, che dovrebbe fondarsi su una visione e su esperienze condivise attraverso un profondo, aperto e acceso confronto pubblico, sia la fase successiva del loro continuo adeguamento innovativo, che richiede la pressione e la voce robusta e ben indirizzata dei cittadini. La carenza della macchina statale ne sabota le altre tre fasi: la definizione delle azioni con cui attuare gli indirizzi; la loro attuazione concreta nei diversi luoghi del territorio; l’esame dei risultati ottenuti, propedeutico all’adeguamento delle azioni e alla eventuale maturazione di nuovi indirizzi. Partiti Stato-centrici e macchina dello Stato arcaica sabotano la circolazione di idee e l’interferenza cognitiva fra centro nazionale livelli locali. Da un lato, infatti, creano una barriera alla circolazione e al confronto pubblico delle soluzioni prospettate e sperimentate nei territori, impedendo a queste di concorrere a formare le preferenze e le scelte nazionali. Dall’altro, tolgono al centro la cultura, gli strumenti e l’autorevolezza per intervenire nelle situazioni dove lo sviluppo e le possibilità di partecipazione effettiva sono ora bloccati, esercitando una funzione decisiva di riparazione, promozione e indirizzo nazionale. Piuttosto, partiti e Stato tendono ad agire nei territori spesso semplicemente per conservare gli assetti dati, vuoi con decisioni autoritarie, disattente alle specificità delle persone e dei contesti, vuoi con complice lassismo» (pp. 14-15).
Per rompere il legame perverso fra partiti e Stato, e per scongiurare la prosecuzione della pratica di ‘cattivo governo’, Barca non si limitava a evocare una riforma dei partiti, ma riprendeva l’idea di uno «sperimentalismo democratico», proposta da Charles Sabel. In sostanza, si trattava di evitare le due distorsioni speculari della visione ‘socialdemocratica’, che riconosce le competenze per realizzare le politiche di riforma solo al personale tecnico dell’amministrazione pubblica, e del ‘minimalismo’ liberista, che ritiene invece che le competenze siano detenute esclusivamente dai grandi soggetti privati. Al contrario, per Barca «la conoscenza necessaria per assumere decisioni pubbliche che siano davvero di interesse generale non è concentrata nelle mani di pochi», ma «è dispersa fra una moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere» (p. 20). Così, per prendere decisioni efficaci, la macchina pubblica «deve costruire un percorso, che, convincendo i molteplici detentori di conoscenza e esperienza a partecipare, promuova il confronto fra le loro parziali conoscenze, consenta innovazione, e lo traduca in decisioni assunte secondo le regole di responsabilità costituzionalmente previste» (p. 21). Ma, per raggiungere un simile obiettivo, il mutamento della macchina amministrativa dello Stato non è sufficiente. Ciò che serve sono proprio i partiti, capaci di articolare conoscenze ma anche di aggregarle in grandi visioni: «Per poter dare un buon governo al paese, ossia per migliorare la qualità, la giustizia e l’efficacia delle sue decisioni, servono, in conclusione, corpi sociali intermedi che non siano specializzati nella tutela di uno solo degli interessi o valori in gioco, che abbiano una visione, che permettano un confronto pubblico acceso e aperto, che consentano flussi di idee (nelle due direzioni) tra centro e periferia, che alla fine portino queste idee all’attenzione delle persone che il metodo democratico fa eleggere o nominare negli organi costituzionali. Insomma, servono i partiti. Al plurale, perché molteplici ed escludenti sono i convincimenti generali – soprattutto lungo un’asse sinistra-destra – di cui i partiti hanno bisogno per esercitare una carica simbolica che incentivi la partecipazione, per disporre di un linguaggio con cui realizzare il confronto, per avere un metro con cui dire i ‘si’ e i ‘no’ alle diverse ipotesi di azione pubblica» (p. 29).
Era da questa specifica prospettiva – top-down più che bottom-up, si potrebbe dire – che Barca giungeva a delineare il proprio Che fare?, ossia a descrivere la forma del «partito nuovo». Un partito di cui certo non era descritta in modo puntiglioso la struttura, ma che, in ogni caso, mostrava due carattere salienti. In primo luogo, il partito auspicato da Barca nella Memoria era infatti «un partito di sinistra saldamente radicato nel territorio che, essendo animato dalla partecipazione e dal volontariato di chi ha altrove il proprio lavoro e traendo da ciò la propria legittimazione e dagli iscritti parte rilevante del proprio finanziamento, torni, come nei partiti di massa del passato, a essere non solo strumento di selezione dei componenti degli organi costituzionali dello Stato, ma anche ‘sfidante dello Stato stesso’ attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica» (p. 30). In secondo luogo, il partito che emergeva dal documento era un «partito palestra», capace di svolgere una funzione di «mobilitazione cognitiva», consistente prima di tutto nel «raccogliere, confrontare, selezionare, aggregare e talora produrre conoscenza sul ‘che fare’ dell’azione di governo attraverso un confronto pubblico, informato, acceso, aperto e ragionevole, nei luoghi del territorio, fra iscritti, simpatizzanti e ‘altri’ singoli o membri di associazioni, genuinamente indipendenti» e, inoltre, nel «trasferire questa conoscenza attraverso tutti i possibili strumenti della ‘voce’» (p. 32) agli amministratori locali e alla classe dirigente eletta agli incarichi di governo. Così, il partito evocato da Barca assumeva una conformazione piuttosto chiara, caratterizzata da quatto elementi: a) «Partito che mobilita, produce e pratica conoscenze sulle azioni pubbliche necessarie per soddisfare i bisogni e le aspirazioni dei cittadini»; b) «Partito del confronto pubblico informato, acceso e ragionevole»; c) Partito aperto, «sia a individui sia ad associazioni» (p. 37); d) «Partito separato dallo Stato», «sia in termini finanziari, sia in termini di relazione fra i funzionari del partito, locali, regionali e nazionali, da un lato, e le persone che il partito stesso concorre a fare eleggere o nominare negli organi di governo – locali, regionali e nazionali – o che vengono selezionate con criteri di merito (e non su proposta o pressione dei partiti) nell’amministrazione, nelle agenzie e autorità, negli enti di pubblica proprietà, dall’altro» (p. 38).
Apparso in un momento in cui il Partito Democratico, dopo la delusione delle elezioni di febbraio, pareva a un passo dalla dissoluzione, il manifesto di Barca sollecitò una serie di critiche e commenti, oltre che il sospetto di una sorta di ‘scalata’ dei vertici del partito da parte di un ‘ex-tecnico’. Ora quei sospetti sono ormai piuttosto lontani, e la partita per la successione di Epifani al vertice del Pd non sembra coinvolgere – se non indirettamente – Fabrizio Barca. Ciò nondimeno, la Memoria rimane ancora oggi un documento interessante per discutere del futuro della forma-partito evitando le più facili scorciatoie dell’anti-politica, o, meglio, di quella retorica ‘anti-partito’ di cui Salvatore Lupo ha descritto recentemente le mille declinazioni, oltre che l’inesauribile forza, lungo il corso di tutta la storia repubblicana (cfr. S. Lupo, Anti-partiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza), Donzelli, Roma, 2013). Ed è anche per questo che è molto utile la lettura del volumetto Il triangolo rotto. Partiti, società e Stato, pubblicato proprio in questi giorni da Laterza (pp. 105, euro 10.00), in cui vengono riprodotte le relazioni tenute da Piero Ignazi e dallo stesso Barca nel corso di un seminario organizzato dall’editore nel maggio scorso, insieme agli interventi dei partecipanti al fitto dibattito (Nando Pagnoncelli, Walter Tocci, Laura Pennacchi, Carlo Borgomeo, Concita De Gregorio, Luca Telese, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Goffredo Bettini, Salvatore Biasco, Marco d’Eramo, Piero Bevilacqua, Andrea Ranieri, Claudia Mancina, Erica Jozsef).
Non è certo fortuito che a introdurre la discussione sia Ignazi. In effetti, gran parte del ragionamento sviluppato da Barca nella memoria procedeva dall’immagine dei partiti «Stato-centrici», un’immagine proposta proprio da Ignazi nel suo recente Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti (Laterza, Roma - Bari, 2013), un saggio in cui i partiti vengono descritti impietosamente come «creature gigantesche che si muovono impacciate e ingorde come dei Leviatani sgraziati». Nel saggio che introduce Il triangolo rotto, Ignazi torna naturalmente proprio su quella immagine, ma tiene anche a chiarire come il deterioramento del lato del triangolo che unisce i partiti alla società non caratterizzi esclusivamente l’Italia. In linea generale, scrive comunque Ignazi, le ragioni del deterioramento possono essere ricondotte a una principale: «la discrasia tra l’idea, l’immagine ricevuta che ancora alligna nell’immaginario collettivo di ciò che ‘deve’ essere un partito, e le trasformazioni socioeconomiche e culturali della società negli ultimi decenni» (p. 3). In altre parole, a dare sostanza effettiva alla crisi del rapporto fra società e partiti è il tramonto del partito di massa novecentesco, un partito che per molti versi – a dispetto della sua crisi – continua a costituire una sorta di «mito fondatore». «Le difficoltà per la tenuta di quel tipo di partito», scrive Ignazi, «sono sorte quando alla società industriale è subentrata la società dei servizi, della comunicazione e dei consumi in cui non c’erano più divisioni di classe o di appartenenza confessionale rigide e ben definite, dove gli elettorati erano tendenzialmente più mobili e le appartenenze plurime e cangianti», «un mondo completamente diverso rispetto a quello che aveva dato origine ai partiti di massa» (p. 5). Dinanzi all’irrompere del nuovo mondo post-industriale, i partiti hanno cercato strade differenti: per un verso, hanno imboccato il sentiero della Basisdemokratie, ossia di una struttura in cui il peso della leadership è bilanciato dal ruolo della base di iscritti e militanti; per un altro, molti dei partiti tradizionali hanno invece scelto una strada differente e hanno così rinforzato il loro legame con lo Stato, ritrovando cioè nello Stato (mediante il finanziamento pubblico, il patronage e le rendite connesse all’occupazione delle istituzioni) quelle risorse che non erano più in grado di estrarre dalla società. Ed è proprio questa la via che conduce i partiti a diventare «Stato-centrici» e a rafforzare i vertici rispetto alla base: «Dato questo rapporto simbiotico, quasi saprofitico, con lo Stato, e l’espletamento ormai di una sola funzione, quella elettorale, il partito radicato nel territorio, stile vecchio partito di massa, serve a poco: è molto più funzionale una struttura centralizzata che sovrintenda e provveda, dal centro, a tutte le necessità» (p. 9). Ma, se si rafforza fino all’esasperazione il rapporto con lo Stato, il legame dei partiti con la società diventa tanto sottile da risultare quasi evanescente: «I partiti, e in particolare gli iscritti ai partiti, sono stati giustamente definiti gli ambasciatori della società. Essi dovrebbero rappresentare l’anello di congiunzione con la cittadinanza, quello che mette in collegamento i cittadini con i decisori. Ebbene, questo rapporto si è deteriorato, è andato sfilacciandosi nel tempo, e in molti casi è proprio saltato. Il problema attuale dei partiti – e possiamo dire anche dei partiti del nostro Paese – è la loro autoreferenzialità, l’incapacità e la difficoltà di rispondere a quanto viene richiesto dalla società» (p. 10). Per garantire che la relazione con la società torni a irrobustirsi, è necessario che i partiti ricomincino a essere «rispondenti al loro interno e all’esterno», e cioè che siano «aperti e democratici» (p. 10). Ma, nonostante ogni sforzo di democratizzarsi e di dare più spazio agli iscritti e ai simpatizzanti (come nel caso delle primarie), è evidente come l’immagine dei partiti rimanga piuttosto logora: «Lo stigma di organizzazioni chiuse e lontane rimane. Per il semplice fatto che, nonostante tali aperture, i partiti hanno perso appeal: non incarnano più quegli antichi ideali di passione e dedizione, di impegno e convinzioni. Hanno perso quell’alone eroico di difensori disinteressati delle volontà collettive, evidenziando invece il diffondersi di piccoli interessi materiali e personali. Si dimostrano tuttora incapaci di suscitare adesioni entusiastiche e disinteressate nel processo di raccolta e aggregazione delle domande; e altrettanto carenti nel connettere tali domande con le decisioni dei governanti. Il lato società-Stato non è più efficientemente collegato dai partiti. Perché i partiti hanno ‘mollato’ la società per rifugiarsi nello Stato» (p. 11).
Nel proprio intervento, Barca non può che partire proprio da questo punto, ma – articolando il medesimo discorso già sviluppato nella Memoria – non procede tanto dalla crisi interna dei partiti, quanto dalla crisi dei due modelli di governo della cosa pubblica che hanno dominato la scena negli settant’anni, ossia il modello ‘socialdemocratico’ e il modello ‘minimalista’. In sostanza, il presupposto di tutta l’analisi è la convinzione che per un ‘buon governo’ sia oggi necessario attingere al patrimonio di conoscenze che sono diffuse nella società, e che non possono essere in alcun modo monopolizzate né dai soggetti pubblici, né da quelli privati. I partiti sono dunque considerati da Barca come i canali in grado di svolgere un nuovo ruolo, che non è tanto quello di trasmettere le domande dalla società verso lo Stato, quanto quello di mettere a disposizione dell’intervento pubblico quelle competenze e quelle informazioni di cui lo Stato non dispone e che pure sono indispensabili per produrre buone politiche. E proprio una prospettiva di questo tipo potrebbe indurre i militanti e i dirigenti di un partito specifico – il Partito Democratico – a cambiare direzione, sostenuti magari anche da ex-disillusi o da associazioni che non hanno rinunciato definitivamente a incidere sulla cosa pubblica.
Per quanto sia ricca di suggestioni, è abbastanza chiaro che – per la stessa prospettiva top-down da cui viene concepita – la riflessione di Barca tralascia di considerare un problema non da poco. In effetti, ci sono vari modi di guardare il triangolo Partiti-Stato-società, quantomeno perché non è chiaro se si tratti di un triangolo equilatero o isoscele, né – per rimanere nella metafora geometrica – quale sia la base del triangolo. Per molti versi Barca sembra infatti considerare lo Stato e la sua azione come il vertice da cui partire, mentre il partito diventa uno strumento per ‘afferrare’ qualcosa che si trova disperso nella società e che diventa cruciale per governare. Ma, se si può concordare con questa idea, e se cioè si può riconoscere che il «partito nuovo» immaginato da Barca potrebbe avere degli esiti positivi sull’azione di governo, rimane comunque da capire per quale motivo i singoli individui dovrebbero aderire e sostenere un simile partito. Ed è invece proprio questo il punto che Barca tende, se non a sottovalutare, quantomeno a dare per scontato, perché pare che si tratti soltanto di dare nuove motivazioni a iscritti e dirigenti, e cioè a qualcosa che esiste già e non a qualcosa che deve essere sostanzialmente ricostruito.
Non è dunque sorprendente che Ignazi sottolinei l’importanza degli incentivi alla partecipazione. Perché gli incentivi non possono certo essere rappresentati – per lo meno esclusivamente – dalla convinzione di fare qualcosa di ‘utile’ per il Paese. Fra gli incentivi a partecipare con una certa continuità alla vita di un partiti ci possono essere infatti tante componenti, anche utilitaristiche, ma in ogni caso non può essere sottovalutato il peso di quelle simboliche, tra cui naturalmente anche quelle legate alla personalizzazione. E se Ignazi sottolinea per questo la necessità di una leadership simbolicamente efficace, non dimentica neppure il ruolo dell’identità e del sentimento di appartenenza, soprattutto per gli elettori di sinistra: «Questo sentimento di appartenenza, pur logorato, consente ancora di attivare momenti di socialità, di tempo trascorso insieme, estranei al ‘lavoro politico’. Agire su questa sfera è fondamentale. Si tratta di riattivare e modernizzare l’intuizione novecentesca delle case del popolo: luoghi di incontro che si possono sovrapporre ai circoli – o trasformando questi ultimi – ma che esaltano la dimensione del leisure, del tempo libero. La vecchia distinzione tra la sezione, luogo serio di lavoro politico, e la casa del popolo o il circolo ricreativo, luogo frivolo e ‘irrilevante’, non ha più senso. La partecipazione dell’organizzazione di attività di leisure, tra l’altro, fornisce un ulteriore cemento identitario (come hanno fatto per decenni le feste dell’Unità)» (p. 20).
È d’altronde proprio su questo lato del triangolo che si concentrano alcune delle osservazioni, più o meno critiche, indirizzate alla proposta di Barca, come per esempio il ragionamento di Marco d’Eramo sulla necessità di una narrazione. Ma fra i molti interventi è forse quello di Walter Tocci a porre la questioni in termini più radicali, e forse per questo efficaci. L’idea della «mobilitazione cognitiva» proposta da Barca, osserva Tocci, è senza dubbio suggestiva, ma rientra nell’ambito delle «repubbliche immaginarie», e tende cioè a collocarsi su un terreno molto lontano dalla machiavelliana «realtà effettuale». In questo senso, Tocci allude esplicitamente alla disgregazione della cultura della sinistra italiana, diventata una «sinistra senza popolo»: «Come militante» – scrive Tocci – «sono cresciuto nella periferia romana e da giovane facevo un esercizio mentale per mettermi di buon umore. La sera partivo dalla sede del Partito e andavo sempre in borgata. Lungo la strada, al succedersi dei palazzi collegavo la crescita dei voti a sinistra. Adesso per avere la stessa piacevole sensazione devo fare un’inversione di marcia dalla periferia verso il centro. Da trent’anni perdiamo i voti popolari e conquistiamo consensi tra i ceti agiati. Oggi Parioli è un quartiere rosso di Roma» (p. 51). Ma questa sorta di malinconico viaggio nella memoria è soprattutto la premessa per una riabilitazione del bistrattato concetto di populismo. Seguendo (implicitamente) la proposta del filosofo argentino Ernesto Laclau, Tocci ritiene infatti che il ‘populismo’ non sia un modo per solleticare le masse e carpirne il consenso, ma un modo di ‘produrre’ il popolo in cui si nasconde il nucleo stesso del ‘politico’. Come sostiene in questo senso Tocci: «Il popolo non esiste in natura. Non è un aggregato sociale e tanto meno una classe. È prima di tutto una costruzione politica. Nasce un popolo quando il politico decide una linea di frattura sulla quale attesta la ricomposizione dell’eterogeneità sociale» (p. 52). 
Nell’ottica di Tocci, la riabilitazione concettuale del populismo costituisce la premessa per riconoscere il fallimento della sinistra italiana (e in particolare del Partito Democratico) dinanzi al compito della «costruzione politica» di un popolo. Più in generale, quelle stesse intuizioni possono essere estese anche allo stesso triangolo Stato-partiti-società. Forse dovremmo infatti chiederci se non sia già fuorviante intendere quella relazione come un triangolo, i cui vertici risultano più o meno saldamente legati gli uni agli altri. Perché dovremmo chiederci se sia davvero corretto considerare la ‘società’ come una realtà distinta dallo Stato e dai partiti. Non solo perché, nel corso del XX secolo, i partiti si sono insediati capillarmente nella società o perché lo Stato sociale ha invaso la società, ridefinendone i tratti e forse persino riducendone l’autonomia. Il punto è piuttosto che dovremmo iniziare a concepire la società, i suoi bisogni e i suoi ‘interessi’ come un prodotto politico, e cioè come il risultato di una determinata ‘rappresentazione’ della società e delle sue diverse componenti. Ciò è piuttosto evidente in quelle visioni del pensiero liberale che raffigurano l’individuo come un consumatore che agisce spinto in modo esclusivo dal proprio interesse economico, mentre tutti gli altri soggetti collettivo non sono altro che alterazioni di questa dinamica ‘naturale’. Ma questo è evidente che anche in quelle visioni che ritrovano nella società il corpo sano della nazione, da preservare e rafforzare, o la realtà della classe operaia, con i suoi interessi e la sua storica missione di emancipazione. 
Naturalmente non sono solo i partiti a produrre le rappresentazioni della società. Ma forse possiamo riconoscere che i partiti del XX secolo – proprio i vecchi partiti di massa che sono ormai tramontati – hanno avuto la capacità di assolvere, insieme alle altre, la funzione della «costruzione politica» di un popolo, di rappresentazione della società e di definizione delle fratture politiche. Se è evidente che oggi quella funzione non viene più svolta dai partiti contemporanei, non è detto che il modo migliore per pensare al partito ‘oltre il Novecento’ – e oltre la realtà dei «partiti Stato-centrici» – non passi proprio da questa strada. E dunque non è affatto escluso che la vera funzione dei partiti debba essere ricercata non nella (perduta) ‘mediazione’ fra Stato e società, ma proprio nella ‘costruzione’ politica del popolo e della società.

Damiano Palano

sabato 14 settembre 2013

Povera politica, se è in mano a questi partiti. Un’intervista su “La Provincia” di Como

Questa intervista è apparsa su “La Provincia” di Como di lunedì 8 luglio 2013

Intervista a cura di Davide G. Bianchi

La crisi dei partiti è l’argomento del momento, ma come sempre ci sono diversi modi per affrontare il tema: ci si può schiacciare sul presente dicendo cose non sempre originali – come fanno molti – oppure guardare alla storia per avere una visuale più ampia.
Damiano Palano, giovane e bravo professore di Scienza politica all’Università Cattolica, ha scelto la seconda opzione: il suo “Partito” (da poco uscito con Il Mulino: pp. 257, pp. Euro 15.00) infatti prende le mosse da lontano per scandagliare il terreno.

Professore, partiamo dal titolo: perché i partiti… si chiamano così?

Il termine “partito” indica una parte di un intero, che ovviamente è la comunità politica. Per molti secoli, prima che fosse in uso la parola “partito” si parlava di “parti”: a Firenze, per esempio, i Guelfi avevano già un proprio statuto. Dopo l’anno Mille, nell’Italia dei comuni vi sono pressoché ovunque delle parti contrapposte che combattono per il potere. Come? Con delle elezioni per designare dei rappresentanti che prendano le decisioni politiche.

E altrove? Proprio in quel periodo nasce il parlamento inglese è corretto?

Sì, ma si devono fare delle precisazioni. La camera dei Lords prima e la camera dei Comuni poi nascono nel corso del XIII secolo, ma per lungo tempo restano sotto il tallone del sovrano. Si emancipano – se così possiamo dire – nel Seicento. Il punto decisivo in proposito è la vittoria del parlamento sull’assolutismo degli Stuart e, nel Settecento, la nascita del ‘governo di gabinetto’: si consolida così la prassi che il primo ministro, nominato dal sovrano debba avere la fiducia del parlamento.

A quel punto nascono i partiti moderni…

Esatto. Nascono intorno al problema della fiducia da accordare al governo: non è un caso che la struttura del parlamento inglese sia a scranni contrapposti. Ciò significa che i partiti si costituiscono prima in parlamento poi si organizzano nella società, non il contrario. Ancora per tutto l’Ottocento non sono particolarmente strutturati, ma soltanto schieramenti d’opinione. Nel nostro Paese non è diverso con la Destra e la Sinistra storica della stagione liberale.

A quel punto possiamo dire che i partiti hanno definitivamente superato il pregiudizio che li ha tenuti sotto scacco per lungo tempo: il sospetto di essere l’anticamera della guerra civile. 

Quando avviene esattamente questa svolta nella sensibilità dei moderni?

Con la nascita della prassi parlamentare, che come dicevo si genera dapprima in Inghilterra. Si fa strada così l’idea che i partiti siano un modo di guardare all’interesse generale da un punto di vista particolare. Il primo a dirlo è proprio un parlamentare inglese: Edmund Burke. Un suo omologo arrivò a dire che un grande politico non sta dentro un partito, ma si tiene libero di scegliere di volta in volta, diversamente dai politici di basso profilo che militano proprio in ragione della propria mediocrità. Lei capisce che a questo punto siamo ben oltre il problema originario – il rischio di sedizione – e ci inoltriamo ormai nelle moderne tattiche parlamentari, se non già nelle loro degenerazioni.

Che anch’esse contribuiscono alla crisi dei partiti! Venendo all’oggi, quali sono le cause che lei vede e – se non chiediamo troppo – le vie d’uscita?

Se avessi le soluzioni farei un altro mestiere! Scherzi a parte: le difficoltà datano almeno trent’anni e sono una conseguenza del declino  delle ideologie e di altri fattori (non meno importanti) che riguardano la struttura organizzativa dei partiti. Nel nostro Paese il problema è aggravato da una mobilità sociale bloccata, che genera un bassissimo ricambio nella classe politica. Si parla molto di movimenti, proprio perché questi ultimi danno l’idea dell’apertura e della fluidità, qualità che mancano completamente ai partiti attuali. Nel frattempo, grazie allo spazio assunto dai media, stiamo assistendo a forme di legittimazione politica leaderistiche, fortemente individuati, che rischiano di saltare a piedi pari il problema dei partiti – comunque lo si ponga – per tornare ai sovrani assoluti di un tempo, in cui rappresentanza e rappresentazione del potere finivano per coincidere, senza forme particolari di partecipazione.

Davide G. Bianchi


giovedì 12 settembre 2013

A "Partito" il Premio Capri - S. Michele 2013 (Premio Speciale) - XXX edizione


 

Dal comunicato stampa del Premio Capri - S. Michele 2013
 
La Giuria della Trentesima edizione del Premio Capri – S. Michele, dopo aver scelto Guarire dalla corruzione di Jorge Mario Bergoglio (Papa Francesco) come opera vincitrice, e dopo aver valutato le altre cento opere candidate dai rispettivi editori, ha attribuito:
il Premio Grotta Azzurra a Gente di Pasqua di Luis Antonio Gokim Tagle, cardinale arcivescovo di Manila, edita dalla EMI;
il Premio Speciale a Esperimenti di nuova democrazia dello studioso statunitense
Charles F. Sabel, edita da Armando, ed a Partito di Damiano Palano edita da Il Mulino;
il Premio d’onore (di nuova istituzione) a Sermoni di Erfurt di Sant’Agostino.

 
La Cerimonia di proclamazione dei vincitori e di assegnazione dei Premi si
svolgerà ad Anacapri sabato 28 settembre, alle ore 18, e sarà presieduta dal cardinale Crescenzio Sepe arcivescovo di Napoli.


 

martedì 10 settembre 2013

Mann, Freud e i veri 'sonnambuli'. Trent'anni dopo, una nuova edizione della "Sonnambula meravigliosa" di Clara Gallini


di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Clara Gallini, La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano (L’Asino d’oro, pp. 397, euro 20.00), è apparsa su "Avvenire" del 15 agosto 2013.

Nell’estate del 1926, durante una vacanza in Versilia, Thomas Mann ebbe modo di assistere all’esibizione dell’illusionista toscano Gabrielli, un personaggio sinistro che vantava facoltà di trasmissione del pensiero e suggestione. Nel corso dello spettacolo Gabrielli diede fondo al suo repertorio, e in particolare dimostrò la propria abilità di ipnotizzatore inducendo un giovane cameriere a mimare scenette di innamoramento che scatenarono l’ilarità del pubblico. La vicenda non ebbe alcun seguito rilevante, ma lo scrittore tedesco rimase tanto impressionato dall’episodio da farne il brogliaccio di un suo celebre racconto, Mario e il mago. A differenza di quanto era avvenuto nella realtà il racconto si chiudeva però tragicamente, perché alla fine l’illusionista finiva ucciso con un colpo di pistola da Mario, il timido cameriere soggiogato. Per Mann, Mario e il mago non era altro che una grande metafora dell’Italia sedotta da Mussolini e ormai priva di libertà. Ma il racconto era anche uno degli ultimi residui di una vera e propria moda culturale, che aveva imperversato nell’Europa della seconda metà dell’Ottocento, e i cui contorni sono ricostruiti con grande nitidezza da Clara Gallini in La sonnambula meravigliosa. Magnetismo e ipnotismo nell’Ottocento italiano, un libro uscito per la prima volta trent’anni fa e ora meritoriamente ripubblicato (L’Asino d’oro, pp. 397, euro 20.00).


Le radici del fenomeno affondavano alla fine del Settecento, ossia nel momento in cui Franz Anton Mesmer ritenne di aver scoperto il ‘magnetismo animale’, una nuova forma di energia, utilizzabile anche a fini terapeutici. Ma solo verso la metà del XIX secolo il magnetismo divenne una moda culturale, sia nelle classi sociali più abbienti, sia nel mondo popolare. L’intera Europa si riempì di gabinetti di magnetizzatori, che promettevano di risolvere gravi problemi di salute mediante l’ipnosi. E, contemporaneamente, i palchi dei teatri e i baracconi delle fiere si affollarono di magnetizzatori e sonnambule, che invariabilmente accampavano facoltà di chiaroveggenza. Per molti versi, la passione popolare per il magnetismo, l’ipnosi e le “sonnambule meravigliose” rappresentava una reazione al positivismo dell’epoca, alla fiducia cieca riposta nella scienza e nel progresso. Ma gli stessi studiosi positivisti furono tutt’altro che sordi al fenomeno. Anzi, tutti i principali esponenti delle nuove scienze positive si dedicarono con grande attenzione al magnetismo. Tanto che, a un certo punto, proprio il meccanismo della suggestione ipnotica divenne una chiave di lettura per spiegare quasi tutto, dalla logica dei criminali al comportamento delle folle, fino alle stesse basi della società, che Gabriel Tarde definì per esempio come una condizione di perenne sonnambulismo. Di lì a poco, proprio partendo dalla sperimentazione dell’ipnosi, Freud avrebbe cominciato a tracciare (e in qualche modo, a ‘inventare’) i confini dell’inconscio. Ma a quel punto della passione ottocentesca per il magnetismo rimaneva ben poco. La ‘suggestione’ poteva così perdere quell’alone di ‘meraviglioso’ che l’aveva circondata. E la ‘personalità magnetica’ diventava, come nel racconto di Mann, solo una metafora sbiadita, un espediente retorico per ‘raccontare’, più che per spiegare, i meccanismi più misteriosi e inquietanti dell’agire politico.

Damiano Palano




mercoledì 4 settembre 2013

La storia di muro in muro. Un libro di Claude Quétel

 

di Damiano Palano

 
Questa recensione di Claude Quétel, Muri. Un’altra storia fatta dagli uomini (Bollati Boringhieri, pp. 260, euro 24.00), è apparsa su "Avvenire" del 22 agosto 2013

 
Ancora oggi nei mercatini di Berlino è possibile imbattersi in banchetti che espongono ‘autentici’ frammenti del Muro. Naturalmente è molto difficile sapere se quei piccoli quadratini di calcestruzzo, ricoperti da una patina di vernice variopinta, provengano davvero dal vecchio berliner Mauer. Per il turista si tratta d’altronde di un dettaglio trascurabile. Quel frammento finirà dimenticato in fondo a un cassetto, come quasi tutti i souvenir di viaggio. Ma almeno per un attimo avrà regalato la sensazione di stringere fra le mani non un blocchetto di cemento, ma un pezzetto di Storia, un tassello della Cortina di ferro che divise l’Europa e il mondo intero. A più di vent’anni dal suo abbattimento la barriera eretta per separare Berlino Est dalla parte occidentale della città continua infatti a conservare la propria densità simbolica. Ma, come mostra lo studioso francese Claude Quétel nel suo recente Muri. Un’altra storia fatta dagli uomini (Bollati Boringhieri, pp. 260, euro 24.00), non costituisce un caso isolato. L’attenzione dello storico si volge infatti proprio ai “muri politici”, che non nascono soltanto da esigenze di difesa, ma che si propongono di controllare, creare limiti, escludere, vietare. La tappa di avvio di questa genealogia non può che essere la Grande Muraglia cinese, iniziata nel III secolo a.C. e più volte perfezionata nel corso del tempo. Nonostante non sia visibile dalla Luna, come vuole una fortunata leggenda, la Muraglia rimane probabilmente la più ambiziosa (e costosa) fortificazione mai concepita. Ma è anche una sorta di paradigma per tutti i muri successivi. Tra cui Quétel non tralascia di ricordare il limes romano, lungo circa settemila chilometri (ma in realtà assai discontinuo), il Vallo adriano, la linea Maginot, eretta dalla Francia negli anni Trenta, e il Vallo atlantico, costruito nel 1942 dalla Germania di Hitler per proteggere la ‘Fortezza Europa’ da un attacco anglo-americano.


 
Naturalmente si tratta di muri molto diversi fra loro, ma alcune analogie non possono sfuggire. Tra queste, soprattutto la sostanziale inefficacia. La Muraglia cinese non riuscì infatti a impedire le conquiste mongole né tantomeno le lacerazioni interne. E dal punto di vista strettamente militare si rivelò spesso controproducente. Ma neppure il limes romano riuscì effettivamente a elevare una barriera contro l’avanzata dei popoli germanici, mentre la linea Maginot e il Vallo Atlantico si rivelarono poco più che bluff costosissimi. La vera forza di tutti questi muri politici, secondo Quetél, va d’altronde cercata soprattutto nell’efficacia ideologica, nella valenza propagandistica, nella capacità di materializzare una frontiera simbolica tra ‘dentro’ e ‘fuori’, tra ‘civiltà’ e ‘barbarie’. Già per i romani il limes, più che una vera e propria fortificazione, era d’altronde una barriera ‘ideologica’, che separava due modi vivere. Esattamente come la Grande Muraglia, che intendeva racchiudere dentro un confine la civiltà cinese.
È probabilmente in virtù del loro carattere simbolico che i muri sembrano avere un futuro. La caduta del Muro berlinese non ha infatti chiuso la vicenda. Da allora sono anzi proliferate nuove linee di separazione, sempre più sorvegliate. E Quetél dedica dunque la seconda parte del suo libro proprio alla fenomenologia dei nuovi muri. Costruiti talvolta per separare territori in guerra (come fra le due Coree, a Cipro, nel Sahara occidentale, fra India e Pakistan). Ma elevati anche per proteggersi dal terrorismo, come il muro di Israele, e dall’immigrazione clandestina, come fra Usa e Messico, o a Ceuta e Melilla, le due enclave spagnole poste sulla costa mediterranea del Marocco. Limitandosi a un lavoro di ricostruzione storica, Quetél non fornisce spiegazioni alla contemporanea proliferazione dei muri politici. Più semplicemente, si limita a osservare che i muri non forniscono una soluzione, ma danno solo risposte temporanee. Se però la funzione principale dei muri politici è prevalentemente simbolica, è facile dire che ogni muro è spesso destinato a diventare il simbolo di un fallimento. Non solo perché i muri si rivelano quasi sempre incapaci di ‘chiudere’ i territori. Ma perché ogni muro finisce col rendere ancora più visibili, e se possibili più dolorose, le tragedie da cui vorrebbe proteggere.
Damiano Palano