lunedì 20 agosto 2012

Il lungo riflusso. La mutazione culturale italiana nel “Paese leggero” di Fausto Colombo



di Damiano Palano

I posteri risponderanno forse alla domanda se Nanni Moretti sia davvero un grande regista, o – come voleva Mario Monicelli – soltanto un epigono, neppure troppo originale, della commedia all’italiana. Al di là di ogni rilievo stilistico, anche i suoi più spietati critici non possono però negare al cineasta romano un fiuto formidabile nel saper cogliere le tendenze della società, le trasformazioni culturali, il mutamento nei costumi, proprio come i migliori esponenti della commedia all’italiana degli anni Sessanta. Se il cinema di Monicelli e Risi prendeva di mira in prevalenza i ‘tic’, le ambizioni e i complessi di una piccola borghesia investita dal boom, il bersaglio privilegiato del regista romano è invece costituito, fin dai suoi primi film, dalla media borghesia intellettuale della capitale: un gruppo sociale piuttosto ristretto, autoreferenziale, a suo modo estremamente provinciale, ma ciò nondimeno straordinario punto di osservazione, proprio perché all’interno di questo gruppo possono essere osservate – come in una sorta di incubatrice – tutte quelle deformità che negli anni seguenti si ritroveranno, amplificate fino all’oscenità, nell’intera società italiana. Alcune memorabili sequenze di Io sono un autarchico o di Ecce bombo rimangono da questo di vista quasi inarrivabili, e diventano una sorta di documentario anche perché vi si possono talvolta persino scorgere i reali protagonisti di quello zoo intellettuale. Alcuni momenti di Palombella rossa, Caro Diario e Aprile non perdono nel tempo le loro efficacia, nell’esibire i tormenti – ormai non più giovanili – di quel medesimo teatrino, ma sono probabilmente alcune delle scene di Bianca a mostrare la sensibilità con cui il regista romano riesce ad afferrare lo Zeitgeist, forse prima ancora che si sia compiutamente dispiegato. Il liceo «Marilyn Monroe», in cui Michele Apicella – in questo caso in veste di professore di matematica – viene chiamato ad insegnare, profila infatti una sorprendente caricatura di quella «egemonia sottoculturale» (come l’ha definita Massimiliano Panarari) che, nella prima metà degli anni Ottanta, quando il film esce nelle sale, ha solo iniziato a delinearsi, ma che di lì a poco avrebbe travolgerà la società italiana. Le parole con cui il preside della «Marilyn Monroe» stigmatizza il Sessantotto, «l’anno di prova della distruzione del mondo», e con cui esalta il mito degli anni Sessanta, definiti come «un’epoca felice, incontaminata e pura», riescono a distillare quella revisione del passato che in quel periodo è certo già cominciata, ma che diventerà un vero e proprio canone interpretativo della storia italiana. La sala ricreativa, in cui studenti e docenti si trovano alle prese con vecchi flipper e su cui campeggia la gigantrografia di un Mick Jagger che indossa la maglia della nazionale italiana, così come il corso di aggiornamento per i docenti – il meeting dedicato a «La canzone italiana e la scuola», che prevede come premio di partecipazione un disco omaggio con la registrazione inedita di Lucio Dalla che al Festival di Sanremo del 1966 canta Paff... Bum – offrono un’anticipazione davvero strabiliante di quella sorta di riabilitazione della ‘cultura bassa’ destinata a condurre, non tanto a una cancellazione fra ‘alto’ e ‘basso’, quanto alla legittimazione della mercificazione di qualsiasi prodotto culturale, e in fondo all’affermazione del criterio commerciale come unico metro per valutare ogni prodotto cinematografico, musicale, letterario. Ma, da questo punto vista, rimane memorabile soprattutto il professore di storia che, abbigliato e acconciato come un cantante dei primi anni Sessanta (e con dietro le spalle, al posto del Presidente della Repubblica, lo Zoff che innalza la coppa del mondo), introduce non senza un velo di commozione, l’ascolto del Cielo in una stanza di Gino Paoli, illustrando agli studenti il contesto politico e biografico in cui il pezzo aveva visto la luce.



 
Nel pantheon della «Marilyn Monroe» si ritrovano, per molti versi, i tratti distintivi di quell’immaginario del «riflusso», che già dalla fine degli anni Settanta ha cominciato a prendere forma, ma che a partire dai primi anni Ottanta si sviluppa interamente, in stretta, irresolubile, connessione con il mutamento politico. Ed è proprio questa metamorfosi culturale che costituisce il vero nucleo problematico al cuore del nuovo libro di Fausto Colombo, Il Paese leggero. Gli italiani e i media tra contestazione e riflusso (1967-1994)  (Laterza, Roma – Bari, 2012, pp. 300, euro 22.00). Il lavoro di Colombo – che, da un certo punto di vista, prosegue il percorso sviluppato in La cultura sottile. Media e industria culturale in Italia dall’ottocento agli anni novanta (Bompiani, Milano, 1998), oltre che in molti altri studi, ma anche nell’‘autobiografia generazionale’ di Boom. Storia di quelli che non hanno fatto il ’68 (Rizzoli, Milano, 2008) – non si limita infatti a ricostruire il rapporto fra gli italiani e i media in una fase senza dubbio piuttosto intensa della storia italiana, quella che va dal 1967 fino al 1994, ma indaga soprattutto le logiche che sostengono la produzione culturale in questo periodo da un da una prospettiva specifica. Una prospettiva che assume come angolo visuale l’anno terminale del periodo considerato, ossia proprio il 1994: un anno di clamorosa svolta per la politica italiana, con il passaggio dalla ‘Prima’ alla ‘Seconda Repubblica’, ma di cui, in qualche modo, Colombo cerca le radici più indietro, proprio negli anni Ottanta, perché in quella stagione viene rinvenuto l’humus culturale da cui avrebbe preso origine l’immaginario degli anni Novanta, un immaginario che – bene o male – appare ancora piuttosto solido quasi vent’anni dopo. Non è dunque affatto casuale che Colombo prenda avvio dalle sequenze del celebre videomessaggio con cui Silvio Berlusconi annunciò la propria «discesa in campo» e dalla vittoria di Forza Italia (e del fronte già allora piuttosto frammentato dei suoi alleati) alle elezioni del 1994. Quella vittoria – per quanto inattesa – fu infatti, nella lettura di Colombo, l’esito di una trasformazione culturale che, nel corso degli anni Ottanta, aveva radicalmente modificato l’Italia e gli italiani. Come scrive Colombo proprio nelle pagine iniziali, dichiarando le coordinate della propria prospettiva: «quella vittoria fu solo il segnale finale che il lungo mutamento che aveva attraversato il paese, e marcato in particolare il ventennio compreso fra l’inizio della contestazione e la crisi di Tangentopoli, si era compiuto. In particolare, il discorso della cosiddetta ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi costituì non tanto un progetto politico, ma una summa del cambiamento di opinione in atto nella società italiana. In esso, infatti, si compì in qualche modo il passo decisivo di una progressiva colonizzazione dell’immaginario che liquidò il ventennio precedente dandone una interpretazione monolitica, sotto il profilo sia politico sia culturale. L’humus per quella svolta si era costituito negli anni Ottanta, intesi come liquidazione progressiva del decennio precedente, destinato a una damnatio memoriae generata non già dal silenzio, ma dall’efficacia di nuovi discorsi, nuove speranze, e soprattutto da una rilettura costante, sotterranea ed operosa, che cancellava sistematicamente i momenti pure importanti del periodo della contestazione e della partecipazione, esaltando invece – a contrario – gli splendori degli anni Ottanta, visti come un momento di crescita, di benessere collettivo e di riappropriazione della felicità» (p. IX). Gli scandali di Tangentopoli rappresentarono così una sorta di ‘risveglio’ da un sogno, ma, paradossalmente, prepararono il terreno per il trionfo di quell’immaginario che gli anni Ottanta avevano neppure troppo gradualmente edificato.
Benché la lettura di Colombo sia esplicitamente ‘politica’ – nel senso che tenta di spiegare quali siano le basi ‘culturali’ di quella che rappresenta una sorta di «rivoluzione dall’alto», per utilizzare (forse un po’ impropriamente) la terminologia gramsciana – il discorso non si concentra sulle dinamiche politiche, e neppure in modo specifico sulle relazioni fra gli attori politici e il mondo della comunicazione (anche se questo aspetto non viene ovviamente sottovalutato). Ciò che a Colombo preme piuttosto portare alla luce è la trasformazione degli «immaginari», un termine spesso utilizzato in modo un po’ impressionistico, cui invece viene in questo caso attribuito un significato piuttosto preciso. L’immaginario - «quell’insieme di discorsi, immagini, consapevolezze vere e presunte sulla realtà che i membri di una società condividono – in misura differente – senza quasi avvertirne la provenienza, quasi identificandone con la propria quotidiana esperienza della vita sociale» - corrisponde per Colombo a quella che ha definito come la «cultura sottile», ossia «quella forma di cultura in sé né alta né bassa che permea – spesso al di fuori delle tradizionali agenzie di socializzazione – il sentire di una collettività» (p. XI). Negli anni Ottanta questo «immaginario» cambia radicalmente rispetto a pochi anni prima, e tutto ciò che nel decennio precedente aveva contrassegnato – in positivo e in negativo – la società italiana viene rapidamente sostituito da una nuova sensibilità, da nuove aspirazioni, persino da una nuova estetica, che, in fondo, sono proprio quelle fissate nel grottesco pantheon della scuola dipinta da Nanni Moretti in Bianca. «Improvvisamente» - scrive Colombo - «tutto ciò che fino a qualche tempo prima appariva accettabile o addirittura necessario (partecipazione politica e civile, rivendicazione dei diritti, emancipazione dei soggetti più deboli, ridiscussione del ruolo delle istituzioni politiche e culturali) d’un tratto si rovescia nel suo contrario: diventa passatista, fuori moda, surclassato nel sentire collettivo (o comunque, certamente nella rappresentazione di questo sentire) da valori individualisti, tesi alla promozione del diritto al consumo e a una cultura più decisamente ludica» (p. XI). Per comprendere non tanto come, quanto perché ciò avvenga, secondo Colombo è necessario guardare a ciò che avviene ‘dentro’ gli immaginari, quella sorta di ‘scatola degli attrezzi’ cui ognuno di noi più o meno consapevolmente attinge per dare ragione delle proprie scelte quotidiane, per dar forma alle proprie aspirazioni e forse anche per dare un ‘significato’ al proprio percorso di vita. Così, scrive, «per individuare le ragioni e le condizioni di possibilità di cambiamenti come quelli appena descritti occorre guardare all’immaginario, inteso come luogo di scambio e di transizione fra la realtà quotidiana di un contesto sociale e la cultura che la elabora» (p. XI). Da una parte, in questo processo, sta la «materia» - «fatta di frammenti di esperienze concrete condivise, in genere riflessi dei macrocambiamenti nell’economia, nella politica, nella vita civile, ma anche di elaborazioni propriamente culturali, di proposte ideologiche» (pp. XI-XII) – mentre dall’altra sta la «forma», ed è proprio su quest’ultima che si concentra l’attenzione di Colombo, perché è in questa regione che operano ciò che – con un’espressione foucaultiana – definisce come i «discorsi»: «Discorsi che interpretano e danno senso a questa realtà magmatica, stringendola in una forma rappresentativa. Discorsi che sono spesso alternativi l’uno all’altro, e che lottano per l’egemonia, in senso gramsciano. Discorsi che non necessariamente sono appannaggio di soggetti chiari, distinti, riconoscibili, ma che più spesso si forgiano nelle comunanze di interessi, negli equivoci identitari» (p. XII). Naturalmente, all’interno di questi discorsi esistono margini di ambiguità, come d’altronde non mancano conflitti fra discorsi. Il punto, però, come scrive Colombo, è che questi discorsi costruiscono l’immaginario:  «L’immaginario si costituisce dunque attraverso discorsi che confliggendo fra loro per l’egemonia assumono il compito di dare un senso agli individui e alle loro esperienze nella storia. Questi discorsi passano attraverso tutti i luoghi sociali, tutte le occasioni convenzionali e comunicative. Soprattutto, essi si materializzano in testi, prodotti, generi mediali, e tuttavia non si esauriscono in essi. Insomma, i media non sono l’unico luogo di rappresentazione di una società, eppure sono i perfetti indicatori di ciò che avviene nell’immaginario, perché i discorsi vi restano per così dire impressi, quasi congelati, a disposizione di sguardi successivi. È grazie a questo processo di concretizzazione che possiamo individuare, come per le sedimentazioni geologiche, ciò che si è compiuto, riconoscere il ruolo che la forma dell’immaginario ha svolto nel rendere significanti e simbolici oggetti ed eventi, spesso attraverso la forza concomitante o divergente delle letture» (p. XIII).
Il «Paese leggero» si trova all’incrocio fra due «discorsi» differenti: il primo, quello degli anni Settanta, «centrato sulla contestazione, la modernizzazione, la partecipazione»; il secondo, quello degli anni Ottanta, «focalizzato sulla libera iniziativa, il superamento della centralità della grande produzione industriale, il terziario» (pp. XIV-XV). Ma la conquista dell’egemonia di uno sull’altro di questi immaginari comporta soprattutto un diverso atteggiamento nei confronti della cultura ‘bassa’: un atteggiamento che negli anni Sessanta e Settanta risulta ancora segnato dal tentativo di ‘nobilitare’ la cultura delle ‘classi subalterne’. «Gli anni Settanta», scrive Colombo, «risentono ancora di quella vocazione, e anzi ne esprimono il tentativo estremo, con la strada intrapresa da tanta produzione intellettuale interna all’industria culturale di trovare una terza via tra colto e popolare, prodotto di nicchia o di mercato. Nobilitare la cultura leggera dal di dentro è insomma, in quel decennio, un imperativo che cerca e trova soluzioni di sintesi, rifiutando la banalità del prodotto seriale ma anche la chiusura dell’autorialità fine a se stessa» (p. XVIII). Al contrario, in seguito l’atteggiamento verso il ‘basso’ si tramuta in una semplice legittimazione di un uso pienamente consumista e commerciale dei prodotti culturali: «Negli anni Ottanta, in concomitanza con l’avvento della televisione commerciale, comincia un altro processo, per molti anni invisibilmente sovrapposto al precedente: la nobilitazione della cultura popolare (in realtà di massa) tout court, con la rinuncia prevalente alla costruzione di una sintesi, o tutt’al più con un progressivo adattamento verso il basso, il corrivo – il ‘gusto del pubblico’ invocato come un mantra. Non che – in questo decennio – manchino le sperimentazioni o le buone occasioni. Ma la sensazione è che il clima sia definitivamente cambiato, e che si accompagni a una crisi progressiva dell’idea stessa di cultura nel senso tradizionale. Ciò che seguirà, a partire dal 1994, sarà un progressivo smantellamento delle istituzioni culturali del paese, più o meno mascherato, la definitiva rinuncia al ruolo pedagogico della produzione intellettuale, l’esaltazione dell’entertainment come pratica culturale sostanzialmente unica» (pp. XVII-XVIII).
La ricostruzione di Colombo non può che partire dal 1967 e dalla Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani. Non soltanto perché, in modo nuovo, quel documento e quell’esperienza introducevano la critica e il conflitto nelle istituzioni educative, ma anche perché è proprio nella scuola e nel mondo giovanile che prendono forma le trasformazioni destinate a investire la società italiana. Il mondo giovanile avvertiva da un lato «lo sfarinarsi dei miti del benessere ben temperato del dopoguerra», ma sperimentava soprattutto una prima, rilevante «omologazione nei consumi sia di merci sia di cultura» (p. 13). Oltre alla Lettera di Milani, c’è però, sempre nel 1967, un altro evento che segna la scena culturale italiana, il suicidio di Luigi Tenco al Festival di Sanremo, che, attraverso un processo articolato di elaborazione, viene trasformato – come ha mostrato Marco Santoro nel suo Effetto Tenco. Genealogia della canzone d’autore (Il Mulino, Bologna, 2010) – in un «trauma» culturale, capace di affermare un nuovo ‘sottocampo’ nella musica leggera italiana e di consacrare, anche a livello commerciale, la nuova figura del «cantautore». Anche Colombo interpreta il mito cresciuto intorno al gesto di Tenco nei termini di un trauma, di una «frattura simbolica», che palesa non soltanto una frattura interna al mondo della musica italiana, ma soprattutto una lacerazione insanabile dentro la stessa società italiana: una lacerazione che, già qui, viene in qualche modo segnalata dall’attrito fra l’«impegno» del cantautore e l’aggiornamento della canzone italiana costituito dal sodalizio Mogol-Battisti. Se questi ultimi rappresentano un tentativo di rinnovare la musica leggera italiana, in una chiave fortemente commerciale, seppur ‘orecchiando’ temi e problemi del momento, la galassia dei cantautori vive, per circa un decennio, in una condizione di completa ‘simpatia’ con quanto avviene nel mondo giovanile, non limitandosi a ‘rispecchiare’ aspirazioni e inquietudini, ma, per molti versi, offrendo addirittura le parole e un certo stile ‘letterario’ per tradurre sensibilità in precedenza sviluppate da altre forme espressive. «L’importanza dei testi – resa possibile da nuove forme di ascolto, dalla trasformazione dell’industria discografica e da una sorta di ispirazione collettiva – consentì a molti autori di comporre brani in cui erano rispecchiate fedelmente idee, speranze e contraddizioni di un’era […] E, come sempre succede, anche quel periodo passò: i singoli personaggi continuarono le loro vite artistiche nei decenni seguenti. Ma alla fine degli anni Settanta la magia dell’incontro collettivo si era ormai esaurita» (p. 48). 
Ciò che avviene per il ‘cantautore’, avviene in parte anche per altre forme espressive, in cui – a dispetto dell’enfasi sulla dimensione collettiva propria dell’ondata partecipativa degli anni Settanta – si affermano nuovi margini per il riconoscimento dell’«autorialità», in parte divergenti rispetto al modello dell’intellettuale degli anni Cinquanta e Sessanta. Dal punto di vista della comunicazione, gli anni Settanta sono soprattutto anni in cui riesce ad affermarsi un reale pluralismo, che talvolta percorre anche le strade di uno sperimentalismo estremo, e che coinvolge persino la televisione pubblica, con qualche insuccesso, ma pure con punte di indubbio valore. I tratti involutivi di tutte queste tendenze si presentano però già nel 1977, un anno di svolta per la ‘stagione dei movimenti’ e per la vita culturale italiana. E Colombo coglie un’anticipazione del futuro riflusso nella messa in onda, da parte della seconda rete della Rai, della nuova trasmissione di Enzo Tortora, Portobello, in cui si può intravedere la rivincita di quel «borghese piccolo piccolo», destinato a diventare il protagonista del decennio seguente: «la trasmissione svela, con la franchezza emersa anche dalla televisione commerciale, la dimensione provinciale e individualista dell’Italia profonda, fatta di soggettività bizzarre, genialoidi, ormai impegnate in sogni e desideri semplici come il successo, una piccola impresa individuale, un colpo di fortuna. Questa Italia piccolo-borghese prefigura insomma già il mondo degli anni Ottanta, i piccoli progetti di auto-imprenditorialità e di partite Iva, la fine della solidarietà collettiva e in fondo della politica. Il tutto è però mostrato con uno sguardo affettuoso che trasforma la Tv in uno specchio dei nuovi spettatori in cerca di disimpegno e di sogni, di relax e di fuga dalla politica e dalle brutture della crisi sociale, economica e civile in cui il paese sembra essere sprofondato» (p. 117).
Se Portobello chiude in modo emblematico la prima parte del periodo considerato da Colombo (Dell’utopia e della disillusione), la seconda – Del sogno e dell’incubo – è inevitabilmente aperta dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro. La vicenda di Moro inaugura anche la lunga stagione della «Tv verità», che vive però un episodio ancora più cupo, e per molti versi terribilmente illuminante del successo di un certo tipo di spettacolo del dolore, nel circo allestito attorno alla tragedia di Vermicino e del povero Alfredo Rampi. Uno spettacolo che, di lì in avanti, certo non si riprodurrà nelle stesse sconcertanti modalità, ma che certo tenderà a imprimere una componente di spettacolarità anche agli eventi più dolorosi e alle tragedie più insensate. Ma il vero discrimine che separa gli anni Settanta dagli anni Ottanta, l’evento che ‘rifonda’ davvero l’immaginario italiano, non è politico, o almeno strettamente politico.

 La vera svolta – come Colombo mette nitidamente in luce – è la vittoria della nazionale italiana al Mundial spagnolo del 1982. È infatti proprio quella vittoria sportiva a sancire la fine degli «anni di piombo», o, meglio, degli interi anni Settanta, che da quel momento in poi iniziano a essere visti come anni di violenza, odio, terrore, e non come il periodo di maggiore vitalità culturale della società italiana. La vittoria della nazionale di Enzo Bearzor e Paolo Rossi – ricostruita da Colombo attraverso le cronache del tempo, ma anche con le parole di Davide Enia e del suo monologo Italia-Brasile 3 a 2 – diventa la vittoria di un intero paese, capace di riscattarsi dopo mille difficoltà e contro tutti gli scetticismi. Come scrive Colombo: «Nel ricordo diffuso di molti spettatori televisivi degli eventi del 1982, il senso di sorpresa, appagamento e rinascita si coglie perfettamente. Si tratta di una sensazione di esaltazione, in cui tuttavia l’aspetto della condivisione è prevalente. Il vissuto collettivo di quella vittoria – che il racconto mediatico finì per costruire come un segnale di riscatto nazionale, soprattutto nella riproposizione successiva di alcune immagini simbolo – fu in realtà piuttosto una riscoperta di radici e di un destino comune. La malinconia di una stagione difficile non veniva cancellata, ma si stemperava nella consapevolezza che anche nelle difficoltà potevano essere raggiunti del risultati. L’eroe eponimo di quella vittoria, Paolo Rossi, poteva essere discusso per i suoi comportamenti e la squalifica che vi aveva fatto seguito, ma dopo il Mundial la sua immagine fu trasfigurata in quella dell’uomo sconfitto che comunque gioca la sua partita e trova il suo riscatto. Un’immagine che davvero poteva simboleggiare un paese che usciva dalla stagione della crisi economica e del terrorismo per riscoprire la possibilità di una qualche felicità» (p. 192).
La vittoria del Mundial testimoniò una volta di più quanto i successi sportivi possono pesare anche sul terreno politico, ma, in quel caso, il ruolo che giocò Sandro Pertini mostrò anche le potenzialità di una ‘personalizzazione’ che solo nella ‘Seconda Repubblica’ sarebbero state pienamente messe a frutto. Ma, se l’epopea spagnola della nazionale di Bearzot diventa l’emblema della nuova Italia, così come il celebre spot dell’Amaro Ramazzotti con lo slogan «Milano da bere», la scena culturale cambia con ritmi vertiginosi. Se dopo il 1980, il cinema italiano entra in una spirale di crisi – produttiva, di incassi, di esercizio, di ispirazione – da cui, di fatto, non riuscirà mai a riprendersi, è la televisione a conquistare un ruolo preponderante nel definire i gusti degli italiani. È però proprio il cinema – con Sapore di mare dei fratelli Vanzina – a delineare nel modo forse più nitido i contorni di quella nostalgia degli anni Sessanta, che di lì a poco Moretti prenderà di mira in Bianca. Ovviamente, quelli in cui si muovono Christian De Sia e Jerry Calà, sono una parodia degli anni Sessanta, una parodia ricostruita a partire da una certa commedia all’italiana, o addirittura a partire dai musicarelli con Gianni Morandi e Nino Taranto. Ma è proprio in questa ‘reinvenzione’ del passato in chiave nostalgica, in questa celebrazione degli anni Sessanta come «un’epoca felice, incontaminata e pura», che si può ritrovare – come nota acutamente Colombo – la ‘novità’ culturale degli anni Ottanta: «La nostalgia degli anni Sessanta, e più in generale i modelli di riferimento della ‘novità’ sbandierata di questi anni (che è in primo luogo ed essenzialmente la chiusura con l’esperienza di partecipazione sociale e di innovazione politica del decennio precedente, condannato senza appello in nome delle sue deviazioni tragiche, ma in realtà mal vissuto da molti per la sua forte richiesta di impegno e di etica civile), sono gli indizi di quanto il decennio Ottanta si sia configurato più come una controrivoluzione culturale che come una vera e nuova spinta creativa. Il rifiuto del passato prossimo prende nella società la forma di uno sguardo al futuro, ma nella produzione culturale quella più popolare di un richiamo al passato, in un modo che potrebbe ricordare l’angelus novus benjaminiano» (pp. 221-222).
È difficile dire se la storia raccontata da Colombo - articolata in due atti, un intermezzo e un epilogo – assomigli di più a una commedia o una tragedia. Non tanto perché manchino i personaggi tragici o le macchiette, quanto perché il finale rimane in larga parte da scrivere. Da un certo punto di vista, e forse sorprendentemente, Colombo intravede però un lieto fine, o qualcosa che gli somiglia, proprio nell’epilogo, collocato non nel 1994, ma diciassette anni dopo, alla fine del 2011, quando pare concludersi la parabola berlusioniana e torna ancora una volta riaffiorare quella metafora del Titanic che negli anni Ottanta aveva costituito la faccia nascosta dell’immagine craxiana della «nave che va». In realtà, con la crisi del ‘berlusconismo’ si concludono – secondo Colombo – proprio gli anni Ottanta e il suo immaginario: «Tangentopoli e la caduta della Prima Repubblica non furono davvero un fuoco riparatore. La società italiana non fece davvero i conti con la cultura degli anni Ottanta, le sue storture, le sue deviazioni. Il discorso egemonico che i media veicolarono e rafforzarono, e che altro non era che la versione nazionale dell’individualismo mercatista che percorreva l’Occidente, declinato in una chiave provinciale spesso inavvertita, aveva ormai preso il sopravvento nella costruzione delle proprie mitologie sociali, fondendo (come abbiamo visto) i lati luminosi e quelli oscuri delle utopie degli anni Settanta con i desideri irrisolti e istintuali del decennio successivo. Il grande rogo di Tangentopoli e dei partiti della Repubblica bruciò dei capri espiatori (non innocenti, s’intende), ma salvò la principale responsabile di quanto era avvenuto: una larga parte dell’opinione pubblica, una solida maggioranza silenziosa di cittadini che aveva davvero ritenuto possibile inseguire i propri interessi individuali chiudendosi nel proprio privato e accontentandosi dei nuovi, luminosi ‘stili di vita’ che la crescita del benessere aveva per un po’ illusoriamente garantito, e che l’intero armamentario della rappresentazione televisiva e più in generale mediatica aveva rafforzato e confermato» (pp. 259-260). Così, il ventennio seguito a Tangentopoli può essere considerato come una sorta di prosecuzione e di pieno sviluppo di quelle premesse che gli anni Ottanta avevano posto. Ma, nel crepuscolo di questo immaginario, a Colombo sembra di ritrovare anche – per esempio nelle pagine dell’Inizio del buio di Walter Veltroni, o in quelle di Non saremo confusi per sempre, di Marco Mancassola, in cui ritorna in modo diverso la tragedia di Vermicino – le tracce di un nuovo immaginario: «mi è parso un segno di quanto la fine del berlusconismo coincidesse con un embrionale sentimento di necessità di un nuovo racconto che partisse non già dagli ottimismi infantili, ma paradossalmente proprio dagli scacchi, dai drammi, dalle sconfitte e da lì tentasse di trovare un nuovo senso alla storia del paese, individuale e collettivo» (p. 261).



Al di là dei segnali che suggeriscono a Colombo un (in realtà piuttosto moderato) ottimismo, la lettura che propone nel Paese leggero appare difficilmente contestabile. Sembra in effetti difficilmente discutibile l’idea secondo cui gli anni Settanta – al di là di una vulgata divenuta luogo comune – non siano tanto (o soltanto) gli «anni di piombo», quanto soprattutto sotto il profilo culturale, anni di straordinaria ricchezza e creatività, che probabilmente non hanno eguali nella storia del Novecento italiano. E, inoltre, appare molto difficilmente criticabile anche l’idea che gli anni Ottanta siano segnati da una forte creatività, perché – come mostra Colombo – appare vero piuttosto il contrario. Ma, se risponde a molte domande, e se rovescia molti luoghi comuni, il saggio di Colombo propone anche una serie di domande sulla mutazione che investe la cultura italiana a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta. Una di queste riguarda le modalità e il terreno in cui il conflitto fra gli immaginari si combatte. Se infatti è chiaro quali siano i due immaginari che si succedono l’uno all’altro, nel breve torno di qualche anno, non è infatti così chiaro se un conflitto fra loro vi sia davvero. Non è probabilmente un caso che nell’analisi di Colombo la rappresentazione di questo scontro manchi, e che l’intermezzo occupato dalla «Milano da bere» dell’amaro Ramazzotti venga a collocarsi – quasi come una réclame anni Ottanta – tra due atti ben distinti l’uno dall’altro, e quasi senza reciproche connessioni. In effetti – almeno questa è l’impressione di chi scrive – un simile scontro fra immaginari opposti, in lotta per conquista di un’egemonia sulla società italiana, non ebbe mai veramente luogo. Non soltanto perché, come d’altronde mette bene in luce Colombo, anche l’immaginario degli anni Settanta era tutt’altro che uniforme, e al suo interno convivevano dimensioni diverse, alcune delle quali si sarebbero agevolmente riposizionate anche nel nuovo immaginario individualista ed edonista degli anni Ottanta. Ma principalmente perché quell’immaginario che nutre il grande ciclo di mobilitazione degli anni Sessanta e Settanta si ‘esaurisce’ prima che un nuovo immaginario prenda compiutamente forma. Naturalmente, l’Italia non percorre una traiettoria diversa da quella seguita dal resto dell’Occidente, e in fondo da buona parte del pianeta, perché già sul finire del decennio inizia a spirare il vento di quella «fine della Storia», che segnerà lo Zeitgeist della fine secolo, e che comunque pervade il clima culturale mondiale già diversi anni prima che il Muro berlinese cominci a perdere pezzi. Ma, senza dubbio, in Italia questa dinamica ha un andamento originale, come d’altronde era stata anomala – e persino sconcertante – la lunga durata del «maggio strisciante». E non è difficile rinvenire il momento cruciale di questa implosione proprio nel fatidico 1978, l’anno che anche Colombo colloca al ‘giro di boa’ nel percorso del Paese leggero. L’assassinio di Moro segna infatti un punto di implosione dell’immaginario degli anni Sessanta e Settanta, ma non soltanto perché la fase discendente del ciclo di mobilitazione collettiva rende ormai la ricerca della ‘felicità privata’ preferibile alla ‘felicità pubblica’. Con l’assassinio di Moro va in pezzi l’immaginario degli anni Sessanta e Settanta perché va in frantumi quella convinzione che, in modo più o meno esplicito, aveva condiviso una componente non marginale della società italiana: la convinzione che la Storia – nonostante incidenti di percorso, deviazioni, torsioni, lacerazioni – procedesse davvero in una direzione ben precisa, e che fosse destinata, prima o poi, a condurre verso un futuro di eguaglianza e prosperità. Ovviamente, non tutta la società italiana guardava allo stesso modo a quella Storia, incamminata con passo spedito verso un futuro di progresso. Per gli estremisti di sinistra si colorava dei toni scarlatti della rivoluzione, e portava con sé, più o meno inevitabilmente, un fardello di sangue. Per altri, assumeva i tratti di un graduale, moderato eppure inarrestabile progresso verso un obiettivo indeterminato nei suoi contorni, ma che – invariabilmente – veniva indicato con la generica formula di ‘socialismo’. Oggi appare così difficile pensare che davvero una parte della società italiana – e probabilmente la parte più colta, culturalmente aggiornata e creativa – credesse davvero alla ‘rivoluzione’ o al ‘socialismo’. Tanto che persino gli stessi protagonisti – a dispetto di ogni evidenza documentaria – tendono a presentare le proprie convinzioni di un tempo solo come una concessione alla moda culturale, o cerchino (più o meno consapevolmente) di moderare le loro antiche professioni di fede rendendole compatibili con il linguaggio e l’immaginario contemporanei. Ma, per quanto possa essere oggi per noi quasi impossibile da comprendere, la società italiana – o meglio, una sua parte – concepì davvero la ‘rivoluzione’, o comunque un mutamento radicale della società italiana, come qualcosa di possibile, se non addirittura come qualcosa di inevitabile e imminente. È invece proprio nel fatidico 1978 che quell’attesa si esaurisce definitivamente, implode, chiudendo la storia del Novecento con quasi due decenni di anticipo. A partire da quel momento, la fiducia nella Storia e nella sua marcia cede, trascinando con sé l’immaginario che aveva sostenuto per più di un decennio: un immaginario che non viene sconfitto dalla nuova ‘egemonia sottoculturale’, ma che, più che altro, pare ‘dissolversi’, lasciando un vuoto che viene colmato dalla nuova narrazione edonista e individualista. 
Ovviamente, i processi sono complessi, e sarebbe interessante ricostruire le strade attraverso cui si passa dall’uno all’altro immaginario, e con cui i singoli individui dismettono i vecchi abiti per indossare quelli nuovi. È però a partire da questo momento che la storia inizia a essere riletta in modo nuovo, ed è proprio in questo momento che gli anni Sessanta diventano il paradigma di «un’epoca felice, incontaminata e pura», non soltanto grazie alle riuscite operazioni di Gianni Minà, di Renzo Arbore, dei fratelli Vanzina, ma anche a una certa estetica, coltivata da operatori culturali di sinistra. D’altronde, non è affatto improbabile che la satira di Moretti fosse indirizzata proprio alla celebrazione degli anni Sessanta coltivata da Gianni Borgna e dallo stesso Veltroni, che – curando un volumetto sul Sogno degli anni Sessanta – aveva già fissato i cardini attorno a cui si sarebbero mosse nei decenni seguenti la sua produzione narrativa e la sua retorica politica. Colombo nota d’altronde le ambivalenze implicite in questa operazione – come d’altronde nei fasti dell’«effimero», alla base delle estati romane organizzate da Renato Nicolini (p. 122) – e, non casualmente, cita una feroce critica di Goffredo Fofi, che coglieva già allora con straordinario acume come dietro quell’operazione si celasse il tentativo di una rimozione: «Il problema è quando c’è solo questo e Il cielo in una stanza diventa filosofia, morale e ‘Gino Paoli-pensiero’. Si rimuovono gli anni della messa in crisi delle sicurezze (dal ’68 al ’77) e, come è di ogni restaurazione, si esalta il dolce vivere di ‘prima della rivoluzione’, un’‘epoca d’oro’ non generazionale, bensì retorica. E allora i conti non tornano, o tornano troppo facilmente. Questa nuova classe dirigente cultural-politica rivendica sfrontatamente la sua cultura contro tutte le altre. E questa cultura è fatta di canzonette, letture affrettate e modaiole, esperienze superficiali che si credono individuali e risultano, affiancati, tremendamente comuni e conformistici» (G. Fofi, Pasqua di maggio: un diario pessimista, Marietti, Casale Monferrato, 1984, p. 58, citato ibi, pp. 222-223).
Alla base di tutta l’estetica veltroniana si possono ritrovare la costante rimozione del conflitto dal regno della Storia e l’inesausta ricerca di un’infanzia perduta (cfr. L’eterno Revival). Ma quella specifica risposta – che ci rappresenta ogni volta il mondo come il teatro di una violenza insensata – non è che un aspetto del nuovo immaginario che prende forma, una delle tante declinazioni dello Zeitgeist, una delle tante varianti sul tema della «fine della Storia» (cfr. La democrazia del dolore). Ma, in fondo, ciò che è sorprendente in tutta la vicenda così ben ricostruita da Colombo non è forse il fatto che, ad un certo punto, in Italia – sull’onda di quella new wave liberista che prende corpo in tutto l’Occidente – si delinei un immaginario edonista, individualista, egoista e spesso becero come quello celebrato dai fratelli Vanzina o Antonio Ricci. Ciò che appare davvero sconcertante – e quasi inspiegabile – è proprio la rapida dissoluzione di quella vivacità intellettuale e creativa che aveva segnato il quindicennio a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. Il vero enigma – che naturalmente ha delle spiegazioni, che Colombo mette in fila una dopo l’altra, ma che ciò nondimeno rimane tale – è la scomparsa improvvisa di un mondo intellettuale che forse non aveva avuto eguali nel resto dell’Occidente, e che invece svanisce istantaneamente, in termini senza paragoni in nessun altro paese europeo. Naturalmente, in questo passaggio intervengono mutamenti nel mercato culturale, processi di trasformazione della carriera intellettuale, modificazioni nelle stesse modalità espressive, ma neppure tutto questo riesce a chiarire fino in fondo cosa avvenga. Perché ciò che colpisce, al di là dei risvolti che si possono riconoscere nei diversi settori della produzione culturale, è proprio l’incapacità di produrre un immaginario alternativo a quello destinato a diventare dominante negli anni Ottanta, una ‘narrazione’ in grado anche solo di insidiare per un attimo il nuovo, arrogante immaginario individualista di quel decennio. E, da questo punto di vista, non è sorprendente che la ridotta del ‘pensiero critico’ (o quantomeno di un suo surrogato) sia stata rappresentata, per almeno due decenni, non dal mondo intellettuale – disposto a farsi gioiosamente trascinare nel clima giocoso dell’intrattenimento e dell’effimero – ma piuttosto dalla satira, l’unico dei tanti settori, di cui Colombo segue le traiettorie, a conservare una certa unitarietà nel passaggio fra anni Settanta e Novanta. A ben vedere, anche esaminando la produzione satirica in quella stagione-chiave che accompagna la fine della ‘Prima Repubblica’ e l’inizio della ‘Seconda’, non è però difficile riconoscere persino su questo versante, le ennesime conferme dell’incapacità di offrire una visione del presente realmente alternativa a quella proposta dal trionfante, becero immaginario dell’«edonismo reaganiano». Ed è sufficiente rileggere le pagine – peraltro esilaranti – del Nuovo che avanza di Michele Serra. Ma ancor ancor più significative di una sensibilità rimane forse la famosa rubrica Botteghe oscure di «Cuore», in cui si dileggiavano le ambizioni piccolo-borghesi di quei commercianti che, nel tentativo di nobilitarsi, ribattezzavano i loro negozi con nomi spesso totalmente deliranti, come Pollo-in, Boutique del pecoraro, Latte-Chic o Il tempio della michetta. In questo atteggiamento, come nella satira morettiana di Bianca, la critica del tempo appariva in fondo segnata dalla rassegnazione che proprio quello fosse il ‘nuovo’, che non ci fosse realmente un ‘nuovo’ diverso, e che dunque l’unica possibilità rimanesse quella di un rimpianto persino un po’ snob per il ‘buon gusto’, per le buone maniere di una volta e persino per il rigore un po’ noioso dei tempi andati. Ma, in questo modo, il profilo della critica – una critica che ci parla ancora oggi della nostra stessa difficoltà di immaginare il futuro in modo diverso dalla perpetuazione del presente o dall’imminenza della catastrofe – non era poi così diverso da quello grottesco del professore di storia di Bianca, malinconicamente assorto nell’ascolto del Cielo in una stanza.

Damiano Palano




giovedì 9 agosto 2012

La scienza politica come professione. Un libro di Davide Gianluca Bianchi su Gianfranco Miglio




di Damiano Palano


Questa recensione del volume di Davide G. Bianchi, "Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica", è apparsa su "Avvenire" il 20 giugno 2012.


Al principio del corso di Scienza della politica che ebbe modo di tenere per un ventennio all’Università Cattolica, Gianfranco Miglio era solito leggere ai propri studenti alcune pagine di Max Weber. Si trattava dei passi principali di due conferenze che lo studioso tedesco aveva pronunciato pochi mesi prima della morte, e che in qualche modo costituivano il suo testamento intellettuale. La scelta di Miglio ovviamente non era fortuita. Le due conferenze – dedicate alla Scienza come professione e alla Politica come professione – dovevano dischiudere all’uditorio le porte della scienza dei fenomeni politici. Tanto che Miglio consigliava ai giovani ascoltatori di tenere sempre in tasca il volume delle due lezioni, quasi fossero – come scrisse – l’indispensabile “breviario laico per una persona colta”
La lezione di Weber rappresentò in effetti per Miglio una sorta di stella polare, e anche per questo è assolutamente opportuna la scelta compiuta da Davide Gianluca Bianchi, nel recente Dare un volto al potere. Gianfranco Miglio fra scienza e politica (Mimesis, pp. 188, euro 18.00), che scandisce l’itinerario dell’intellettuale comasco in due sequenze, intitolate proprio Wissenschaft als Beruf e Politik als Beruf. L’intento del lavoro di Bianchi – che riproduce in appendice anche il carteggio fra Miglio e Carl Schmitt – consiste d’altronde nel portare alla luce i fili di continuità che esistono tra la ricerca politologica di Miglio, iniziata al principio degli Quaranta e proseguita fino alla fine degli anni Ottanta, e la stagione dell’impegno politico, avviata dopo la conclusione della carriera accademica e protrattasi per tre legislature (1992-2001). 
 Nelle pagine di Miglio emerge invariabilmente la convinzione ‘weberiana’ che i dati storici sui fenomeni politici possano essere ordinati in una serie di ‘regolarità’, ossia di tendenze costanti destinate a ripresentarsi ciclicamente nel tempo e nello spazio. Sulla base di una simile convinzione, Miglio cercò nei classici del realismo europeo i materiali per costruire una teoria generale centrata sulle ‘regolarità’ della politica. E, spinto da questo obiettivo, a un certo punto guardò con interesse persino all’etologia e alla sociobiologia. In questo senso, è piuttosto significativo che, durante la trentennale esperienza di preside della Facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica, Miglio abbia conferito una laurea honoris causa, nel 1981, a un pilastro dell’etologia novecentesca come Konrad Lorenz. Come si legge nella motivazione, su cui opportunamente Bianchi attira l’attenzione, le scoperte di Lorenz offrivano infatti, agli occhi di Miglio, elementi fondamentali anche «per lo studio delle relazioni che si definiscono comunemente ‘politiche’». E per questo, le ricerche sul comportamento degli animali potevano essere considerate come «un contributo prezioso all’avanzamento della politologia».



Naturalmente, l’interesse per l’etologia rimane uno degli aspetti al tempo stesso più affascinanti e più controversi della politologia migliana. E non è certo sorprendente che proprio attorno a questo nodo siano state intraviste le tracce di un deleterio ‘vetero-positivismo’. Ciò nonostante, è indispensabile tenere presente che Miglio non sottovalutò mai la complessità dei fenomeni politici, e che non dimenticò mai di considerare l’essere umano come ‘animale simbolico’. D’altronde, nel corso della sua carriera, fu soprattutto un appassionato studioso delle grandi ‘finzioni’ ideologiche, ossia della grandi ‘maschere’ con cui il potere viene rivestito e legittimato (oltre che talvolta ‘imbrigliato’). E, così, il suo costante obiettivo fu davvero – come recita il titolo del volume di Bianchi - «dare un volto al potere», ossia mostrare le relazioni di potere occultate sotto le diverse formule ideologiche.
Trasportato sul palcoscenico della politica, lo sguardo di Miglio doveva essere confuso con una sorta di compiaciuto cinismo. E paradossalmente – come spesso avviene per i grandi realisti prestati alla politica – doveva anche combinarsi con una certa ingenuità, dovuta forse all’incapacità di comprendere fino in fondo le meschinità cui può giungere la pratica politica quotidiana. Anche durante la stagione dell’impegno politico, Miglio non venne comunque meno alla lezione weberiana. Persino in quella fase, intese infatti la politica come Beruf, come una ‘chiamata’ e come un impegno solenne. Così come, per quasi mezzo secolo, aveva inteso la ricerca scientifica come una ‘vocazione’. E forse per questo, nell’epitaffio inciso sulla lapide del tomba di famiglia di Domaso, le due ‘vocazioni’ di Miglio – Professore universitario e Senatore della Repubblica – si trovano affiancate l’una all’altra, a fissare il senso di un intero cammino intellettuale.

Damiano Palano

giovedì 2 agosto 2012

Il sovrano senza qualità. Un libro di Alessio Musio sull'etica fra Hans Kelsen e Carl Schmitt

di Damiano Palano

Questa recensione al volume di Alessio Musio "Etica della sovranità. Questioni antropologiche in Kelsen e Schmitt" (Vita e Pensiero 2012) è apparsa, con alcune lievi modifiche, su "Avvenire" del 14 luglio 2012.

Collocate su versanti diametralmente opposti sotto il profilo teorico e politico, le figure di Hans Kelsen e Carl Schmitt rappresentano due pilastri fondamentali – forse i più importanti – della cultura giuridica del Novecento. Attraversando buona parte del secolo e gli orrori della ‘guerra civile mondiale’, entrambi si trovano infatti alle prese con gli enormi problemi dell’epoca della ‘mobilitazione totale’, dinanzi alla quale l’eredità della dottrina dello Stato ottocentesca appare andare in frantumi. Insieme alla realtà dello Stato, vanno infatti in crisi le stesse immagini dottrinarie dello Stato e della sovranità. E le proposte teoriche di Kelsen e Schmitt offrono due soluzioni opposte a questo stesso insieme di questioni. Per un verso, Kelsen procede all’edificazione di una teoria ‘pura’ del diritto, una teoria da cui è espunto ogni elemento non giuridico. Per l’altro, Schmitt sostiene invece che ogni ordinamento può reggersi solo su una base politica, su un ‘sovrano’ che abbia la capacità di fissare il confine fra l’amicus e l’hostis, e dunque di decidere sullo stato di eccezione.
La letteratura sul pensiero dei due giuristi è praticamente sterminata, ma il recente saggio di Alessio Musio, Etica della sovranità. Questioni antropologiche in Kelsen e Schmitt (Vita e Pensiero, pp. 245, euro 19.00), ha l’indubbio merito di rileggerne i contributi da una prospettiva originale. La questione della ‘sovranità’ – attorno alla quale ruotano, in modo differente, entrambe le proposte – è infatti indagata nei suoi presupposti antropologici. E, in particolare, viene riesaminata a partire dalle pagine di quel grande capolavoro della letteratura novecentesca che è L’uomo senza qualità di Robert Musil.

Come mostra Musio, entrambi i giuristi conobbero personalmente il romanziere e si interrogarono sulla sua riflessione. Nel periodo viennese, Kelsen ebbe con Musil una frequentazione non episodica. E a Schmitt – che invece incontrò solo una volta lo scrittore – Musil concesse addirittura l’onore di leggere ancora in bozze alcune parti dell’Uomo senza qualità. D’altronde, la problematica della ‘dissoluzione della soggettività’, che il romanzo di Musil (profondamente influenzato dal pensiero di Ernst Mach) fissa in modo paradigmatico, può essere davvero considerata – come sostiene Musio – il punto di partenza delle speculari riflessioni di Kelsen e Schmitt. Il nodo della sovranità non riguarda cioè solo la dimensione dello Stato e il suo potere, ma, più in profondità, la dimensione individuale. In fondo, anche Kelsen e Schmitt riconoscono infatti che l’essere umano, più che «un uomo senza qualità», appare ormai – con le parole di Musil – come un insieme di «qualità senza uomo». La tragedia della sovranità, con cui si trovano alle prese i due giuristi, non scaturisce dunque solo dalle trasformazioni politiche del XX secolo: si tratta anche di una tragedia antropologica, che nasce dalla scoperta dell’incompatibilità della condizione umana con le categorie di una radicale indipendenza. L’idea di una piena sovranità individuale può reggersi infatti solo sul presupposto di una concezione solipsista, ma un simile solipsismo gnoseologico è destinato a rivelarsi del tutto illusorio dinanzi al dato della relazionalità umana, di fronte all’imprevedibilità delle conseguenze delle nostre azioni. A questa scoperta, Kelsen e Schmitt rispondono in modo radicalmente diverso. Il primo espelle la stessa questione della sovranità dalla teoria pura del diritto, mentre il secondo ritrova nella decisione l’elemento distintivo del potere sovrano. In un quadro simile, al di là dei meriti specifici delle due proposte, tende però a dissolversi qualsiasi spazio per l’etica. Ed è invece in questa direzione che guarda Musio.



Una soluzione diventa possibile solo oltrepassando i diversi punti di approdo cui giungono Kelsen e Schmitt. O meglio, diventa possibile solo considerando la «morte del soggetto» come la morte della mitologia cartesiana del soggetto. In altre parole, nel ragionamento di Musio, l’etica non può essere in sé sovrana perché il soggetto non è mai interamente padrone delle proprie azioni (e delle loro conseguenze). Al tempo stesso, è però indispensabile riconoscere che la vita morale presuppone una forma di sovranità: una sovranità che non si esaurisce nella decisione, ma che consiste piuttosto nella libertà delle scelte compiute da ognuno di noi nella progettazione della propria esistenza. Per questo, la sovranità diventa per Musio qualcosa di simile all’«estate invincibile» che Camus scopre dentro ognuno di noi. Un’estate che l’«uomo senza qualità» non può mai possedere come un oggetto. Ma che non può cessare di cercare, come condizione di una vita morale.

Damiano Palano