lunedì 30 aprile 2012

La "classe" fra Marx e Benjamin. Un libro di Andrea Cavalletti

Questa recensione del volume di Andrea Cavalletti, Classe (Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 160) è apparsa, in una versione parzialmente diversa, sul primo numero del 2012 della rivista "Filosofia politica". Il fascicolo, dedicato alla questione del 'soggetto politico' (e della sua crisi), ospita contributim, fra gli altri, di Laura Bazzicalupo, Ida Dominijanni, Enrica Lisciani Petrini, Gaia Giuliani, Sandro Chignola, Sandro Mezzadra, Ernesto Laclau, Cristian Lo Iacono, Elettra Stimilli e Giorgio Grappi.


Cos’è una ‘classe’? A questa vecchia domanda – che assume oggi connotazioni inevitabilmente diverse rispetto al passato – Andrea Cavalletti cerca di rispondere con un itinerario articolato, che va oltre una semplice ricostruzione etimologica e concettuale. Il raffinato percorso compiuto da Cavalletti tenta infatti di scorgere l’elemento distintivo della classe, in filigrana, nella genesi della metropoli ottocentesca e nella nascita delle tecniche ‘biopolitiche’. Ma ciò che Cavalletti cerca di portare alla luce non è solo l’originario tratto ‘biopolitico’, che, nella riflessione dei fisiocratici e all’interno del vocabolario delle scienze di governo settecentesche, segna la genesi del termine ‘classe’. Al centro dell’attenzione è piuttosto l’elemento sfuggente che configura la classe come il limite politico contro cui la società capitalistica – pur nella sua tendenza al superamento di ogni limite – viene a scontrarsi. In questo senso, è piuttosto chiaro che Cavalletti pensa non tanto alla «classe» in termini generali – come raggruppamento individuabile sociologicamente – quanto, specificamente, alla classe operaia, o, meglio, alla «classe rivoluzionaria» in grado di fronteggiare la civilizzazione capitalistica. Marx costituisce così un riferimento dichiarato in questo percorso, ma sono soprattutto alcune riflessioni di Walter Benjamin a indirizzare la rilettura compiuta all’interno del volume. In particolare, al cuore dell’ipotesi svolta da Cavalletti, sono una serie di appunti che Benjamin – riferendosi alla psicologia collettiva fiorita a cavallo fra Otto e Novecento – dedica alla differenza strutturale tra la «massa» e la «classe» rivoluzionaria. Mentre la «massa» descritta dalla Massenpsychologie è – secondo Benjamin – un’espressione solo della piccola borghesia e un soggetto capace esclusivamente di azioni reattive, la classe rivoluzionaria è invece il prodotto di un allentamento: l’allentamento della massa che scaturisce dal costituirsi dei lavoratori in classe rivoluzionaria solidale. Nelle parole di Benjamin, la classe viene infatti a formarsi proprio nel momento in cui la solidarietà [Solidarität] fra i suoi membri indebolisce la massa.
L’idea dell’«allentamento» della massa occupa un ruolo fondamentale nella rilettura proposta da Cavalletti, il quale – proprio sulla base di questa intuizione – rilegge le pagine di Marx sulla giornata lavorativa. L’emergere della solidarietà, che ‘allenta’ la presa della massa, chiarisce la consistenza della nozione di ‘coscienza di classe’, da intendersi non tanto come conquista di una determinata visione, quanto come costituzione di un soggetto solidale capace di opporsi al processo produttivo e di far emergere, così, l’antinomia fra capitale e classe: «Quando l’antinomia viene in luce, il processo produttivo si blocca e il contrasto tra operaio e capitalista diviene ipso facto scontro di classe. Di ‘coscienza di classe’ si può forse parlare solo a questo livello. E se la parola ‘coscienza’ ha qui un senso è quello [...] del semplice raggiungimento, nella classe rivoluzionaria, della neutralità delle categorie di soggetto e oggetto. Questa neutralizzazione si chiama solidarietà. Essere coscienti, cioè lottare, cioè essere solidali o essere oggetto di solidarietà. Poiché la solidarietà non è la base della comunità, che a sua volta, come in Edith Stein, precede lo Stato. E non è una buona intenzione dell’ego, ma la forma della semplice esistenza come classe, id est come classe rivoluzionaria. [...] Per la classe rivoluzionaria, cosciente, lotta e solidarietà sono [...] inscindibili, comunicano l’uno nell’altra» (pp. 68-69). Sulla scorta dell’idea di una strutturale antinomia fra massa e classe, Cavalletti può allora leggere anche la «biopolitica» foucaultiana nei termini di una neutralizzazione della classe, ossia di un tentativo volto alla costruzione di una società per masse, per individui-massa privi di qualsiasi solidarietà. E la stessa dialettica capitale-lavoro diviene così una dialettica fra biopolitica e classe, nel senso che la biopolitica – come insieme di tecniche disciplinari e di scienze della popolazione – viene chiamata a neutralizzare il potenziale solidaristico della classe. Parigi, «capitale del XIX secolo», non può che offrire una rappresentazione paradigmatica di una simile dinamica. «Parigi è la capitale di Haussmann e del commissario Bertillon, è la società che avanza dove la moltitudine sediziosa batte in ritirata», perché, dopo la fine della rivolta, «la «città ritorna inappropriabile, mentre l’urbanistica affiora dalle polveri della massa dispersa» (p. 20). In altre parole, la ridefinizione urbanistica di Parigi non è solo mossa dal tentativo di ostacolare ogni futura insurrezione, ma, più in generale, dall’obiettivo di costruire una città per la massa individualizzata.
Gli aspetti più originali della rilettura delineata da Cavalletti risiedono probabilmente nel tentativo di ripensare Marx in parte attraverso Foucault, ma, soprattutto, attraverso Benjamin. Da un primo punto di vista, è infatti senz’altro interessante lo spostamento del luogo genetico della classe (e della sua solidarietà) dalla sede del processo lavorativo alla società, intesa non soltanto come ambito dell’individualizzazione, ma anche come dimensione (costantemente) ridefinita dalla ‘biopolitica’. Sotto un secondo profilo, è però altrettanto rilevante (e forse qualificante) anche l’operazione con cui Cavalletti, inserendosi in una lacuna evidente del pensiero marxiano, giunge – con Benjamin – alla definizione della classe come «allentamento». Proprio perché Marx si focalizza sulle condizioni ‘strutturali’ della classe e dei suoi movimenti, rimangono infatti quasi del tutto assenti nelle sue pagine i meccanismi, anche emotivi, dell’azione della classe lavoratrice. Nella ricostruzione di Cavalletti, il momento cruciale in cui la massa si allenta e in cui emerge la classe è invece proprio la rivolta, intesa – nei termini di Benjamin – come rottura messianica della continuità storica: una rottura che esige «un ordine temporale del tutto nuovo», nel quale «non vi è più una vita integrabile senza limiti nella società, ma una vita già illimitata e immediatamente sociale, che non può cioè in alcun modo diventare sociabile» (p. 119). E, in questa prospettiva, è dunque perfettamente comprensibile il recupero di Sorel compiuto da Cavalletti, perché lo sciopero generale, come viene rappresentato nelle Riflessioni sulla violenza, sembra configurare effettivamente «l’evento creatore in cui la collettività tocca se stessa» (p. 117), il prodotto che si realizza «soltanto nell’allentamento, quale apparizione incomparabile della classe rivoluzionaria» (p. 118).
Nella dicotomia fra massa e classe individuata da Cavalletti, la massa appare certamente come il polo più saldo. La saldezza della massa non determina però la completa scomparsa della classe, o quantomeno l’eliminazione di ogni sua potenziale emersione, tanto che persino oggi – come scrive l’a. nelle pagine conclusive – è possibile pensare all’affiorare della «vera solidarietà, che sconvolge la massa compatta trasformandola in classe rivoluzionaria, ossia, da folla, semplicemente in classe» (p. 136). Ma, se l’enfasi sull’«allentamento» della massa (e sull’emergere della solidarietà rivoluzionaria) costituisce il tratto saliente dell’ipotesi di Cavallletti, è probabilmente intorno a questo punto che sono destinati ad emergere alcuni interrogativi teorici. La prima questione investe proprio l’emergere della Solidarität. Nell’ottica marxiana, la classe operaia scaturisce infatti dall’elemento materiale della cooperazione produttiva, che allestisce le condizioni per la formazione di un ‘soggetto collettivo’. La solidarietà è allora anche un elemento materiale, che si ‘cristallizza’ nel livello del lavoro socialmente necessario e, dunque, nella giornata lavorativa sociale, un processo, o quantomeno una componente (non determinata in modo necessario), di un assetto definito, per così dire, a livello strutturale. Se invece si ritrova l’elemento qualificante della classe nella solidarietà, e nella rivolta in cui tale solidarietà si manifesta, si finisce con lo svuotare di ogni determinazione materiale la nozione marxiana di classe. Con l’inevitabile difficoltà di capire dove risieda l’elemento che distingue la rivolta della classe dall’irruzione politica di quella folla – più o meno criminale – descritta (e deformata) da scrittori come Taine, Sighele o Le Bon. In altre parole, se si trova la specificità della classe nella sua rivolta e nella solidarietà che essa esprime («l’atto antipsicologico di dissoluzione della folla», p. 135), e non nella sua determinazione materiale, diventa difficile distinguere in modo chiaro la psicologia collettiva della classe da quella delle masse (magari populiste, reazionarie, razziste). Da questo primo problema consegue però un ulteriore interrogativo, che riguarda le conseguenze stesse della rivolta. Se infatti si svuota la Solidarität dalle sue determinazioni materiali e la si intende come l’elemento psicologico, emotivo, che presiede all’emergere della classe, è piuttosto scontato che tale solidarietà debba apparire come una condizione del tutto momentanea. In altri termini, se la solidarietà emerge nella rivolta, e se la rivolta si manifesta in una sospensione del tempo storico, entrambe sono destinate – fin dal loro apparire – a una rapida scomparsa. E, così, il concetto di «classe» rischia di diventare un concetto sempre più evanescente. In grado forse di cogliere il clima emotivo che contrassegna le fasi più intense di mobilitazione collettiva, ma del tutto incapace di seguire le intricate traiettorie con cui si ridefiniscono dinamiche produttive e relazioni sociali.

Damiano Palano
Andrea Cavalletti, Classe, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 160.


giovedì 26 aprile 2012

Warning. Una nuova rivista di studi internazionali


Esce in questi giorni "Warning. Rivista semestrale di studi internazionali"

“WARning. Rivista semestrale di studi internazionali” intende promuovere la crescita di una nuova e più accentuata sensibilità per le tematiche internazionalistiche, moltiplicando le occasioni di riflessione e di confronto sui fenomeni che, superando i confini dello stato, formano la trama di quell’immenso campo problematico che è la vita internazionale. Le aree d’interesse della rivista spaziano dalla teoria delle relazioni internazionali alla geopolitica, dai Global Studies agli studi europei, dall’analisi della politica estera all’International Political Economy, dalle ricerche sulla pace agli studi strategici e di sicurezza. Tuttavia, come si evince fin dalla scelta della testata, una speciale attenzione viene dedicata al tema della guerra, nelle sue molteplici declinazioni. La rivista si articola (flessibilmente) in cinque sezioni: la prima (Focus) contiene più saggi riconducibili a uno stesso tema, di ampio respiro e identificato da un titolo generale; la seconda (Saggi e ricerche) ospita contributi su vari argomenti, che possono approfondire tematiche consolidate, riproporne di trascurate, o suggerirne di nuove, fornendo magari lo spunto per successive tematizzazioni; la terza (Interventi e dibattiti) accoglie interventi brevi e dibattiti a più voci su fatti e problemi dell’attualità politica internazionale; la quarta (Sconfinamenti), diversa dalle precedenti per stile e contenuti, tratta di cinema, arte, letteratura, viaggi e altro ancora, ovviamente sempre in rapporto al tema principale della rivista: la guerra; infine, chiude ogni fascicolo un’ampia sezione dedicata alle recensioni. Della riuscita di questa impresa editoriale, che ha il sapore di un’autentica scommessa culturale, siano giudici i lettori, alla cui benevolenza ci appelliamo affinché sostengano la rivista, abbonandosi e contribuendo alla sua diffusione..

domenica 22 aprile 2012

«Dobbiamo prendere atto che il ‘post-Tangentopoli’ è fallito». Un'intervista a Damiano Palano su "il Piccolo" di Cremona


Questa intervista di Daniele Tamburini a Damiano Palano appare sul numero in uscita del periodico "il Piccolo di Cremona".

di Daniele Tamburini
I partiti subiscono una vertiginosa crisi di credibilità e di fiducia: lo dice la cronaca, lo dicono i vari sondaggi che si svolgono sull’argomento. Una crisi che affonda le radici non tanto e non solo negli episodi di corruzione, peculato, uso improprio del finanziamento pubblico, ma nel progressivo svuotamento del loro ruolo storico e costituzionale: la mediazione tra la partecipazione politica dei cittadini ed il sistema di governo, a tutti i livelli. Una perdita di ruolo che, insieme alla percezione diffusa di essere ormai luoghi di mero potere, sorta di “cerchi magici” in cui si distribuiscono poltrone e prebende, alimenta la cosiddetta “antipolitica”. Una questione molto attuale, inoltre, è quella del finanziamento pubblico o rimborso elettorale, che dir si voglia. I rischi sono tanti: dal crescente sviluppo del populismo deteriore, ad una partecipazione ai momenti elettorali sempre più scarsa (l’astensionismo alle urne sta crescendo), alla sostituzione della politica da parte della tecnica. Una strada potenzialmente pericolosa. Ne parliamo con Damiano Palano, docente di Scienza politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Il professor Palano ha partecipato a ricerche sulla riconfigurazione dello spazio politico e sta portando a termine un progetto di ricerca sulle trasformazioni della democrazia. 

Professor Palano, che cosa sono i partiti nel nostro ordinamento repubblicano? 

«In linea generale, i partiti sono associazioni di cittadini che puntano a influire sulle decisioni delle istituzioni di governo. In un contesto democratico come quello italiano, il canale principale attraverso cui i partiti cercano di accedere alle cariche politiche sono le elezioni, e proprio il fatto di partecipare alla competizione elettorale distingue i partiti da altre forme associative che pure hanno un ruolo significativo, come per esempio i sindacati o le associazioni di categoria. A differenza di quanto avveniva nelle costituzioni prebelliche, la nostra Carta costituzionale riconosce esplicitamente il ruolo fondamentale che hanno i partiti come strumento di espressione e di organizzazione della società. L’articolo 49 afferma infatti che «tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. Nel nostro ordinamento, i partiti non sono dunque semplicemente attori ‘privati’, ma in qualche misura anche soggetti ‘pubblici’, perché sono considerati come organi essenziali per la dinamica democratica. Il riferimento al «metodo democratico» è stato però al centro di alcune controversie. I primi critici della ‘partitocrazia’, già negli anni Cinquanta, ritenevano infatti che fosse necessario stabilire controlli pubblici anche sull’organizzazione interna dei partiti, e non solo sulle modalità di propaganda e azione esterna. In realtà, questo tipo di controllo in Italia non è mai stato attivato, per motivi piuttosto comprensibili e in fondo non del tutto deprecabili. Per questo motivi, i partiti si trovano sempre al confine tra ‘pubblico’ e ‘privato’. E la questione del loro finanziamento riflette proprio questa ambivalenza: da un lato, si ritiene che i partiti svolgano una funzione pubblica essenziale, e per questo vengono sostenuti da risorse pubbliche; dall’altro, sono organizzazioni ‘private’, perché rimangono esterne allo Stato (e al suo controllo)». 

La crisi della partecipazione nel nostro Paese è da mettere in relazione con la crisi dei partiti? 

«Crisi della partecipazione e crisi dei partiti sono ovviamente legate, ma è difficile dire quale sia la vera ‘causa’. Si tratta piuttosto di un circolo vizioso, in cui entrambe le crisi si rafforzano a vicenda. Il calo delle iscrizioni ai partiti inizia a registrarsi (in tutta Europa, seppur con differenze tra Paese e Paese) già negli anni Ottanta. I motivi sono al tempo stesso politici e culturali. L’esaurimento delle grandi ideologie novecentesche ha indebolito (seppur non annullato) le identità collettive su cui i partiti di massa si fondavano. E la fine della Guerra fredda ha influito non poco in questo processo. Al tempo stesso, le trasformazioni culturali delle società ‘postmoderne’ hanno favorito forme di mobilitazione diverse da quelle novecentesche. Ma ciò non significa che la partecipazione venga meno. Piuttosto, si tratta di una partecipazione che non si svolge prevalentemente all’interno dei partiti. Al tempo stesso, la fiducia nei confronti dei partiti e della classe politica si riduce a livelli bassissimi. Proprio la sfiducia verso la politica, che in Italia raggiunge punte molto elevate, accomuna d’altronde tutte le democrazie occidentali ». 

Quali sono le radici di tale crisi? 

«La crisi dei partiti ha molte radici. Alcune sono specificamente organizzative, e non sono certo esclusive dell’Italia. Sono legate alla trasformazione della competizione politica, alla crescente mediatizzazione e alla personalizzazione. Tutti questi processi tendono a cambiare l’organizzazione interna del partito, perché il potere reale tende a concentrarsi verso il piccolo gruppo di vertice (se non nel ‘capo’), e perché i partiti tendono a ricercare nella spartizione di cariche pubbliche le risorse finanziarie per la loro sopravvivenza. Al tempo stesso, tende a indebolirsi molto il rapporto fra il partito e la base dei militanti. Un po’ perché la società cambia, e un po’ perché i militanti (e le loro risorse umane) non sono più così importanti nella strategia comunicativa. Non si tratta soltanto di una degenerazione: è anche un risultato innescato dalle trasformazioni della competizione elettorale e dalla necessità di ottenere ‘visibilità’ nel panorama ipertrofico della comunicazione contemporanea. Anche per questo, quasi tutti i partiti italiani sono oggi, di fatto, ‘partiti personali’. E in questo quadro i controlli diventano molto più difficili. A questi fattori, se ne aggiunge almeno un altro. Negli ultimi vent’anni, per far fronte alla crisi di fiducia nei partiti, quasi tutte le nuove formazioni politiche hanno utilizzato a piene mani la retorica anti-politica. Così, hanno acceso speranze puntualmente deluse. Ma hanno anche compiuto una straordinaria opera di auto-delegittimazione, che ha esteso ulteriormente i margini della disillusione, della sfiducia, del disgusto nei confronti della classe politica». 

La forma-partito è riformabile, o ci dovranno essere sempre di più nuovi strumenti di partecipazione politica? 

«In teoria tutto è riformabile, ma è molto improbabile che i partiti possano mutare in modo sostanziale. Le trasformazioni che hanno subito sono dovute non soltanto alla pessima qualità della classe politica odierna, ma anche alle condizioni strutturali del confronto politico nelle democrazie occidentali. Al tempo stesso, è difficile immaginare che il ruolo del partito possa essere sostituito da altre forme di partecipazione. Certo ci sono margini per un maggiore coinvolgimento dei cittadini, in forme diverse rispetto al passato. Ma per incidere realmente e stabilmente sulle decisioni politiche, e anche per costruire progetti politici di lungo periodo, il ‘partito’ rimane probabilmente l’unico strumento adeguato. Anche se al partito sono legate – inevitabilmente – quelle tendenze degenerative che conosciamo, e anche se i partiti di oggi hanno radici molto deboli nella società». 

E la questione del finanziamento pubblico, o rimborso elettorale che si voglia dire? 

«Le polemiche contro la ‘partitocrazia’ sono vecchie quanto la Repubblica, e quella contro i ‘rimborsi elettorali’ è solo l’ultima variante. È chiaro che siamo dinanzi a un meccanismo perverso, costruito per aggirare le volontà espressa dal referendum del 1993 sul finanziamento pubblico dei partiti. Ma si tratta solo di uno degli aspetti più evidenti di un processo più ampio. Negli ultimi vent’anni, il potere di discrezionalità della politica si è ulteriormente accresciuto, ed è sufficiente pensare al ruolo giocato dallo spoil system a tutti i livelli della macchina amministrativa. Probabilmente, la legge sui rimborsi elettorali verrà modificata, ma per affrontare il problema del ruolo dei partiti sarebbe necessario un ripensamento ben più radicale. Innanzitutto, dovremmo prendere atto del fallimento delle grandi speranze di ‘moralizzazione’ alimentate dal crollo della ‘Prima Repubblica’ e cercare di scoprirne le cause. Ma dovremmo anche riconoscere che le riforme degli ultimi vent’anni, al di là della retorica anti-statalista, hanno implicato soltanto un enorme rafforzamento del clientelismo. Se non prendiamo atto del fallimento del ‘post-Tangentopoli’, e se non cerchiamo di capirne le ragioni più profonde, ogni riforma si rivelerà solo un’operazione del tutto simbolica, ma priva di reali conseguenze. Così, avrà ragione ancora una volta il principe di Salina. Dietro la facciata di un cambiamento radicale le cose continueranno a rimanere immutate, e la classe politica assomiglierà sempre di più a una casta di parassiti».

mercoledì 18 aprile 2012

"Governare la paura. Journal of interdisciplinary studies". Una nuova rivista

 

 

Da pochi giorni è disponibile on-line la nuova versione della rivista

Governare la paura. Journal of interdisciplinary studies

«Governare la paura. Governing Fear. A Journal of Interdisciplinary Studies» (Scientific Director: Maria Laura Lanzillo) is an international refereed open access journal that publishes research studies on the themes of fear, security and risk.

Articles are published in Italian, English and French and are subjected to the double-blind peer review system. The journal presents an interdisciplinary perspective and various methodological approaches; its interests range from the political, historical and philosophical reconstructions of the passion of fear as a producer of political order, as well as of a specific anthropology of the political subject, to the transformation of public, social policies, national and international, regarding the questions of security and risk. Much attention is paid also to iconography as well as to the literary and artistic representations of fear, to the way in which fear has been represented and how it represents itself, its social and political effects on different social contexts.
The journal aims at creating a space of dialogue for researchers and experts coming from different empirical and theoretical traditions and are involved in the study of the social and political processes determined by human passions. «Governare la paura» proposes as an intellectual forum with a double function: either to present the problematics connected to the administration of fear and to the assumed research methodologies, and to promote a constant re-organization and re-orientation of the research itself. The journal welcomes critical essays, historical and literary research that refer to various theoretical frames and empirical approaches.

Proposals: The Journal welcomes original essays and articles, as well as books reviews, which have not been published elsewhere, nor submitted to other journals.
Italian Scientific Committee: Riccardo Caporali, Thomas Casadei, Roberto Cornelli, Tommaso Greco, Costanza Margiotta, Michele Nani, Damiano Palano, Alessandro Vescovi.
 
International Scientific Committee: Timothy Brennan, Jean-Christophe Goddard, Bruno Karsenti, Annemarie Gethmann-Siefert, Patrick Wolfe.

venerdì 13 aprile 2012

"Una rivoluzione dall'alto". Un libro curato da Alessandro Simoncini


Esce in questi giorni il volume Una rivoluzione dall'alto. A partire dalla crisi globale, curato da Alessandro Simoncini e pubblicato dall'editore Mimesis. Il volume, preceduto dall'introduzione del curatore, è suddiviso in due parti.
Nella prima (Sul concetto di crisi) sono ospitate le riflessioni di Roberto Esposito, Sandro Mezzadra, Massimiliano Tomba e Franco  Berardi. Nella seconda (Una crisi del capitalismo), le riflessioni di Anselm Jappe, Riccardo Bellofiore, Alex Foti, Aldo Pardi.


Nel volume appare anche un saggio di Damiano Palano dedicato alla democrazia (e alla teoria della democrazia) nella crisi contemporanea, dal titolo Capitalismo, crisi e democrazia. Appunti sulla distruzione creatrice contemporanea.

Il volume (di circa 300 pagine, al costo di 24 euro) può essere ordinato da Amazon o da Ibs. 




Il downsizing della cittadinanza
di Gianluca Bonaiuti
(“Il Manifesto”, 8/6/2012)

Un volume collettivo sui nuovi rapporti di potere che cercano la loro legittimazione nella «scienza economica»

«Non c'è mai stata un'epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, "moderna" e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell'umanità». Così Walter Benjamin, in un frangente decisivo della storia del XX secolo. A distanza di quasi un secolo dalla stesura di questa annotazione, verrebbe quasi da dire che non se ne può più di sentir parlare di crisi. Non solo nel senso che non se ne può più delle conseguenze che ad essa si addebitano in termini di effetti politici e sociali, ma perfino del fatto che in fondo, a ben vedere, sembra quasi che quello di «crisi» sia più un concetto di copertura, o di rimozione, che non un concetto di svelamento, grazie al quale, cioè, sia possibile rendere visibile qualcosa che prima non si vedeva. Sennonché, è subito evidente che la forma culturale della crisi è uno stimolo insostituibile per l'intelligenza politica. Mai, come nei periodi di crisi, si assiste a una proliferazione di discorsi, di prese di posizione, di diagnosi e di prognosi che riguardano l'intero assetto della nostra vita in comune. La crisi è uno dei principali content provider dell'intelligenza critica e, come tale, un serbatoio apparentemente inesauribile di prese di parola che impediscono la rassegnazione.
Ed
è innanzitutto per questo che la crisi, come concetto e come evento, risulta indispensabile: evitare la paralisi. Se è lecito poi parlare di «crisi del concetto di crisi» ciò è dovuto al fatto che il tema «crisi» non può più essere trattato nello stile naïf della tradizione moderna, la quale da tempo è divenuta nient'altro che l'ornamento nostalgico di un sapere ordinario e conservatore. Il discorso sulla crisi si deve ora basare sul fatto che l'espressione «crisi» non indica un oggetto su cui si possono formulare asserzioni dirette, siano esse edificanti o accusatorie, indica piuttosto un concetto container che raccoglie complessità impossibili da abbracciare con un solo sguardo.
Non è, dunque, la crisi, il problema, bensì i suoi contenuti. E sul contenuto di questa crisi non sembra avere dubbi il bel volume collettaneo curato da Alessandro Simoncini pubblicato per i tipi della milanese Mimesis. A partire dal titolo: Una rivoluzione dall'alto. A partire dalla crisi globale; il quale cita sì un'espressione d'antan, attribuita prima a Bismark e recuperata a più riprese dalla cultura politica del XX secolo (da ultimo, Etienne Balibar in un intervento su Liberation del novembre scorso), ma ha l'indubbio merito di dirottare la nostra attenzione sul grande assente dai dibattiti contemporanei: il potere.
I contributi diversissimi che compongono il volume (i contributori hanno «anime» disciplinari, a loro volta, diversissime, oltreché una significativa varietà di prospettiva politica: Roberto Esposito, Sandro Mezzadra, Massimiliano Tomba, Franco Berardi Bifo, Anselm Jappe, Riccardo Bellofiore, Alex Foti, Aldo Pardi, Damiano Palano) possano riconoscersi in un intento comune: il primo segno/effetto di questa crisi è di spoliticizzare l'orizzonte di comprensione di ciò che accade, in particolare delle decisioni con cui si reagisce a processi che sembrano sempre troppo più grandi delle forze politiche in campo. Ecco, proprio ciò che oggi si presenta come reazione obbligata, viene risospinto, a partire dall'acuta diagnosi contenuta nell'introduzione, nell'alveo di una razionalità di lunga durata che non ha nulla di politicamente neutrale. C'è qualcosa, nella neutralizzazione politica dei processi economici contemporanei, che sfugge perfino all'acuta diagnosi schmittiana dell'inizio del secolo scorso: lo stigma di superfluità che viene decretato da decisioni di governo che sono rivolte a segmenti crescenti di popolazione globale. Ora la superfluità non riguarda più solamente i marginali, ma interessa anche chi, nel cuore del sistema, si è da tempo abituato ad una condizione di benessere - così recita il mantra estatico delle agenzie decisionali sub e sovranazionali. Ciò che è certo, però, è che la superfluità non è uno status politicamente neutrale. È proprio ad essa, e non solo al malaffare di una classe dirigente fuori controllo, che dev'essere addebitato lo svuotamento della democrazia.
Il downsizing della cittadinanza va di pari passo con la nuova alleanza tra capitalismo e autoritarismo. La ricodifica del capitalismo nel senso delle figure autoritarie avviene nel linguaggio esangue della «scienza economica», e non più in quello manifestamente sanguinoso dei plotoni di esecuzione. L'impressione è che qualche chiarimento, in fatto di crisi, potrebbe venire da un concetto adeguato di generazione. È chiaro a tutti, infatti, che quando la «crisi» diviene il tema dominante, si attinge sempre ad un repertorio lessicale che non può fare a meno di riferirsi alla rottura temporale. Il problema generazionale nasce esattamente così, come riflesso banale di una coscienza temporale azzerata. Forse, senza guardare troppo per il sottile, bisognerebbe cominciare ad intendere con questo termine un segnale di discontinuità nella prosecuzione delle regole di apprendimento condivise. Se valesse questa opzione, si potrebbe dire di appartenere ad una generazione ogni volta che si fa parte di un gruppo che non vuole più imparare le stesse cose della generazione precedente.
Questa è certamente una traccia riconoscibile degli interventi critici del testo: alle generazioni che non sanno più apprendere, né disapprendere, si devono, al contrario, sostituire quelle generazioni che dell'apprendimento hanno fatto una forma di vita, e che, per quanto stressate fino all'inverosimile dall'erosione di tradizioni troppo recenti per essere date per scontate, hanno tutti gli strumenti per poter rinunciare a fare sempre la stessa cosa, a percorrere sempre lo stesso cammino, a voler cavalcare sempre nella stessa cattiva infinità.



mercoledì 4 aprile 2012

Le stagioni di un ossimoro. Un articolo sulla Lega Nord dalla rivista "Formiche"


Esce in questi giorni il nuovo numero della rivista "Formiche", che questo mese presenta un focus dedicato alla 'questione settentrionale'.
Nel fascicolo, in cui sono ospitati interventi di Matteo Mauri, Mauro Magatti, Felice Meoli, appare anche un breve articolo di Damiano Palano (Le stagioni di un ossimoro), dedicato alla Lega Nord.

Le stagioni di un ossimoro
di Damiano Palano

Nei prossimi mesi la Lega nord dovrà decidere se mantenere alta la bandiera di opposizione, scontando il prezzo di un possibile isolamento, o proseguire sulla strada di partito di governo, magari rinunciando a una parte del proprio bagaglio retorico.


Quando la Lega nord, alla metà degli anni Novanta, si trovò alle prese con la difficoltà di giustificare il proprio nuovo ruolo, finì col riesumare e aggiornare un vecchio slogan del Pci degli anni Settanta. Il partito padano divenne da quel momento una "Lega di lotta e di governo", così come il Partito comunista di Berlinguer era stato, durante il Compromesso storico. Al di là della congiuntura politica in cui fu elaborato, proprio quello slogan riesce a fissare il profilo che il partito padano si è costruito negli ultimi dieci anni. E, soprattutto, è in grado di mostrare le caratteristiche dell´alleanza di ferro che il partito di Bossi ha stretto prima con Forza Italia e, in seguito, con il Popolo della libertà. ...

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