mercoledì 28 marzo 2012

Il trionfo dell’edonismo di massa. Per una storia dell'"egemonia sottoculturale"

Una versione parzialmente diversa di questo testo è apparsa sulla rivista "Formiche", nel numero 53 del novembre 2010. 

di Damiano Palano

Era la primavera del 1973 e l’Italia veniva ancora percorsa dall’ondata di mobilitazione collettiva iniziata qualche anno prima. Proprio in quei mesi, i muri delle città italiane furono tappezzati dai manifesti di una piccola azienda piemontese di jeans, nata da poco, ma decisa a conquistare una fetta rilevante del mercato nazionale. Per farsi largo in un settore fino a quel momento dominato da operatori stranieri, la prima azienda italiana a entrare nella produzione di jeans aveva scelto un nome evocativo: “Jesus”. Una scelta ovviamente provocatoria, che – più che all’iconografia classica – rimandava all’icona pop di Jesus Christ superstar, il musical che aveva mietuto successi oltreoceano. Quella scelta si inseriva d’altronde all’interno di un’aggressiva campagna pubblicitaria, che corredava una serie di immagini dall’evidente richiamo sessuale con frasi di ascendenza evangelica (come, soprattutto, “Chi mi ama mi segua”). Lo slogan della “Jesus»”, non mancò di attirare l’attenzione di Pier Paolo Pasolini, che, proprio a partire da quel momento, iniziò una riflessione in pubblico sulla “mutazione antropologica” degli italiani, destinata a segnare gli ultimi anni di vita dello scrittore friulano.
Per Pasolini, lo slogan faceva trapelare molto più che un’abile strategia di promozione commerciale. Dietro quello slogan, si nascondeva infatti la realtà di un’epocale trasformazione dei valori. «Il suo spirito», scriveva per esempio, «è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori». Dopo quell’intervento, Pasolini prese a esplorare quasi ossessivamente la “mutazione antropologica”: una mutazione che nel breve arco di un decennio aveva alterato i tratti della popolazione italiana, omologando “alto” e “basso”, nord e sud, destra e sinistra, e costruendo un nuovo tipo umano, contrassegnato dal tratto comune di un irrefrenabile “edonismo di massa”.
Dal 1973, quel radicale processo di trasformazione, di cui parlava Pasolini, sembra giungere sino all’Italia di oggi, al trionfo dell’edonismo di massa, al disprezzo esibito per la cultura, a un’omologazione all’insegna della trivialità, del cattivo gusto, dell’ignoranza. E, soprattutto, sembra portare direttamente a quella che Massimiliano Panarari definisce la marea montante dell’“egemonia sottoculturale”. Perché, a ben vedere, nella campagna della “Jesus” non è difficile rintracciare, seppur solo a uno stadio germinale, l’anticipazione dello spirito che contrassegna i nuovi intellettuali organici dell’Italia sottoculturale. Ma, soprattutto, perché l’Italia di oggi ci appare davvero omologata e segnata nelle sue più profonde strutture antropologiche – non solo sugli schermi televisivi, ma anche nelle strade di metropoli e cittadine di provincia, nelle case del nord e del sud, nelle famiglie degli imprenditori come in quelle operaie, nei più oscuri recessi della società come sui più elevati scranni istituzionali – dall’etica del tronista, dalla filosofia del demi-monde, dall’estetica del boudoir.
Ma, forse, proprio perché la vecchia profezia di Pasolini risulta ancora oggi tanto convincente, è necessario guardarla con un minimo di sospetto. Se non altro, perché la tesi della “mutazione antropologica” si basava sull’immagine molto elitaria della cultura, cui si contrapponeva la sagoma di un popolo evidentemente mitizzato. Anche per questo, dovremmo probabilmente cercare di scavare un po’ di più sotto le basi dell’“egemonia sottoculturale”. Se lo facessimo, forse scopriremmo che non tutto è stato travolto. Ma, soprattutto, scopriremmo che la vittoria dell’egemonia sottoculturale affonda le radici in un clima più generale. Un clima che coinvolge l’intero occidente e che deve essere considerato non soltanto come un effetto della rivoluzione neo-liberale avviata negli anni Ottanta, ma piuttosto come la conseguenza di una trasformazione che ha segnato, insieme alla fine della Guerra fredda, l’esaurimento delle grandi tradizioni progressiste del Novecento.
Nel 1989 – e forse un decennio prima – non è finita la storia, ma si sono progressivamente esaurite tutte quelle grandi narrazioni occidentali che avevano proiettato nel futuro un progetto da realizzare. E proprio per questo, oggi non sappiamo pensare il futuro se non nei termini di una difficile preservazione del presente. È proprio nella caduta dell’immaginario di cui si sono nutrite tutte le ideologie novecentesche che si possono trovare le radici dell’“egemonia sottoculturale” globale. Venuta meno la tensione richiesta dallo scontro bipolare, dinanzi a questo vuoto, sono semplicemente emersi gli eterni spiriti animali dell’essere umano.
In tutta questa dinamica, l’Italia non ha seguito una traiettoria differente dal resto dell’occidente, che d’altronde non è risultato immune dalle derive più deleterie dell’“egemonia sottoculturale”. Anche se, senza dubbio, l’Italia ha mostrato ben più di un carattere specifico. Il più eclatante dei quali, probabilmente, non è costituito tanto dal ruolo politico di un oligopolista del mercato televisivo, quanto dalla scomparsa – si potrebbe dire dall’atrofia progressiva – del mondo intellettuale. Un mondo che aveva giocato un ruolo significativo nei primi tre decenni della storia repubblicana, ma che, a partire dagli anni Ottanta, non è stato in grado di uscire realmente dal circolo vizioso della “fine della storia”. Così, mentre la contrapposizione del bipolarismo polarizzato della Seconda Repubblica riusciva a logorare, ogni sentimento di appartenenza a una comunità, gli intellettuali si limitavano ad imboccare due strade opposte, ma egualmente inconcludenti. Per un verso, venivano risucchiati dalla logica nichilista della contrapposizione fra i due blocchi politici, e contribuivano dunque ad alimentare l’immagine di una grottesca guerra civile simulata fra due Italie irresolubilmente opposte l’una all’altra. Per l’altro, si rifugiavano in una raffinata nostalgia per il buon gusto dei tempi andati, per i fotogrammi in bianco e nero di un’Italia immaginaria e perduta. Rinunciando così – in entrambi i casi – non solo a capire cosa fosse davvero successo in Italia, ma soprattutto a costruire nuove rappresentazioni collettive, in grado di restituirci almeno un po’ di fiducia nel futuro. E consegnando le armi e il terreno stesso del confronto agli alfieri dell’“egemonia sottoculturale”.
Solo la (difficile) costruzione di un nuovo immaginario e di una visione politica, potrebbe relativizzare – ma non certo invertire – la deriva triviale dell’Italia contemporanea. E lo stesso Panarari non indica d’altronde una direzione molto diversa, nel momento in cui invoca l’avvento di intellettuali onesti, «che sappiano fare in maniera capace e creativa il loro lavoro di inventori di architetture simboliche alternative a quelle vittoriose e tracotanti dell’egemonia sottoculturale». Forse, però, su un punto è bene togliersi ogni illusione. Per quanto abili e lungimiranti, questi nuovi creatori di narrazioni alternative non potranno fare tabula rasa della “mutazione antropologica”, dell’assuefazione al cattivo gusto cui abbiamo assistito in questi anni. Potranno forse far uscire l’Italia dal circolo vizioso della deleteria alternativa fra il risentimento e il rimpianto. Ma – si badi bene – un compito simile non richiede un mese o un anno, ma processi ben più lunghi e complessi. E, soprattutto, le narrazioni collettive, le identità condivise, le visioni politiche hanno poco a che vedere con le storie con cui gli spin doctor possono confezionare campagne più o meno efficaci. Non forniscono armi per il Blitzkrieg di una contesa elettorale, semplicemente perché si collocano su un terreno diverso. D’altronde – se proprio vogliamo scomodare Gramsci – l’egemonia non nasceva, secondo il pensatore dei Quaderni, da una lunga, estenuante, capillare, “guerra di posizione”?

Damiano Palano


lunedì 19 marzo 2012

Il futuro di un menagramo? La «Terza rivoluzione industriale» di Jeremy Rifkin

di Damiano Palano

Un posto d’onore nella categoria dei futurologi spetta sicuramente a Jeremy Rifkin, forse il più noto tra gli studiosi dei grandi trend economici, politici, ambientali. Nella sua lunga carriera di esploratore di tendenze future, Rifkin ha dato alle stampe quasi una ventina di libri, alcuni dei quali sono diventati dei best-seller mondiali. La sua popolarità in Italia risale alla metà degli anni Novanta, quando il suo libro La fine del lavoro aprì un fitto dibattito, nel mondo politico, economico e sindacale. Ma l’attenzione per le tesi di questo ‘futurologo’ si è accresciuta negli anni, dopo la pubblicazione di libri come L’era dell’accesso, Empatia, Economia all’idrogeno, che hanno trovato grandi sostenitori, così come – è doveroso ricordarlo – più di qualche critico. Ora Rifkin torna in libreria con un nuovo lavoro, intitolato La Terza Rivoluzione Industriale (Mondadori, Milano, 2011, pp. 330, € 20,00). L’appassionato lettore dei testi di Rifkin può ritrovare nelle pagine di questa nuova fatica l’enfasi consueta, con cui viene salutato l’inizio della nuova rivoluzione industriale, una rivoluzione che – secondo il futurologo – è già cominciata, e che ha solo qualche elemento in comune con le due precedenti rivoluzioni. La stagione che sta per aprirsi dinanzi ai nostri occhi sviluppa infatti le grandi promesse delle prime due rivoluzioni industriali, ma se ne discosta perché, in questo caso, non aprirà una fase di conflitti, né sancirà un capitolo della lunga storia dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Le parole di Rifkin, da questo punto di vista, non lasciano spazio ai dubbi: «La Terza rivoluzione industriale è, insieme, l’ultima fase della grande saga industriale e la prima di una convergente era collaborativa. Rappresenta l’interregno tra due periodi della storia economica: il primo caratterizzato dal comportamento industrioso e il secondo dal comportamento collaborativo. Se l’era industriale poneva l’accento sui valori della disciplina e del duro lavoro, sul flusso dell’autorità dall’alto al basso, sull’importanza del capitale finanziario, sul funzionamento dei mercati e sui rapporti di proprietà privata, l’era collaborativa è orientata al gioco, all’interazione da pari a pari, al capitale sociale, alla partecipazione a domini collettivi aperti, all’accesso alle reti globali» (ibi, p. 294). Per quanto i contorni di questa Rivoluzione non siano ancora evidenti ai profani, Rifkin ne riconosce invece molto chiaramente i segnali, che non possono non essere occultati dalla complessità di un passaggio storico estremamente complicato, dal potere «gerarchico» al potere «laterale».

 Più in generale, l’edificio della Terza Rivoluzione Industriale – un edificio ancora in costruzione – si baserà comunque su cinque pilastri, ognuno dei quali è indispensabile per reggere l’intera impalcatura economico-sociale: «1) il passaggio alle fonti di energia rinnovabile; 2) la trasformazione del patrimonio immobiliare esistente in tutti i continenti in impianti di micro-generazione per raccogliere in loco le energie rinnovabili; 3) l’applicazione dell’idrogeno e di altre tecnologie di immagazzinamento dell’energia in ogni edificio in tutta l’infrastruttura, per conservare l’energia intermittente; 4) l’utilizzo delle tecnologie Internet per trasformare la rete elettrica di ogni continente in una inter-rete per la condivisione dell’energia che funzioni proprio come internet; 5) la transizione della flotta dei veicoli da trasporto passeggeri e merci, pubblici e privati, in veicoli plug-in e con cella a combustibile che possano acquistare e vendere energia attraverso la rete elettrica continentale interattiva» (p. 46). Perché ognuno di questi pilastri venga effettivamente eretto sono necessarie alcune misure, non proprio di poco conto, come, per esempio, il passaggio a una «economia all’idrogeno», una transizione dalla geopolitica alla politica della «biosfera», l’adozione di una nuova visione del progresso sociale (fondata sull’idea di una co-creazione), l’accesso a una politica di sviluppo economico sostenibile. Ma, soprattutto, affinché la Terza Rivoluzione Industriale inneschi effettivamente la sua marcia, portandoci fuori dalle secche della crisi globale, è necessario forgiare un mondo ‘orizzontale’, basato sulla solidarietà e sulla cooperazione, che trasformi le relazioni ‘verticali’ in un ricordo del passato.
È certo difficile negare che Rifkin non risulti dotato di una capacità visionaria che gli consente di immaginare il futuro a partire dalla tendenze presenti. Ma forse è anche opportuno riconoscere come il futuro dipinto da Rifkin sia solo uno dei molti futuri probabili, o, meglio, dei futuri possibili. D’altro canto, è piuttosto evidente come lo studioso americano tenda a leggere una serie di tendenze oggettive in chiave inguaribilmente ottimistica: una chiave in cui non solo sono espulse le potenzialità negative delle trasformazioni tecnologiche, ma in cui non vengono neppure prese in considerazione le dimensioni conflittuali connesse a ogni processo di mutamento. Da questo punto di vista, può forse utile tornare a riesaminare le posizioni sostenute da Rifkin nei suoi libri precedenti, a partire proprio da quello che gli ha dato una certa popolarità presso i lettori italiani, ossia La fine del lavoro.
In sostanza, in quel volume, apparso all’inizio degli anni Novanta, la tesi di Rifkin era che la rivoluzione informatica avrebbe prodotto un drastico mutamento nelle società occidentali: in sostanza, le nuove tecnologie avrebbero richiesto sempre meno lavoro umano, perché gran parte della fatica sarebbe stata svolta dalle macchine. Si aprivano allora nuove prospettive per attività non lucrative, dedicate all’assistenza e alla cura della persona. In quel momento, dopo la crisi dei primi anni Novanta, ci si stava incamminando verso la fase di massima ascesa della bolla della new economy, e si sperimentavano anche gli entusiasmi della ‘terza via’, di cui l’amministrazione Clinton costituiva la variante americana. Ma la previsione di Rifkin era destinata a essere smentita in modo drammatico. Gli anni seguenti, infatti, non furono affatto segnati da una ‘fine del lavoro’, ma, al contrario, negli Stati Uniti e poi anche in Europa, da un incremento sostanziale degli effettivi orari di lavoro. Le tecnologie informatiche, internet, i telefoni cellulari, se venivano celebrati come strumenti in grado di liberare le energie individuali e persino dall’obbligo di recarsi quotidianamente in ufficio, si sono rivelati in realtà dei formidabili strumenti per allungare gli orari di lavoro. Non solo per trasferire il lavoro dentro casa, come hanno fatto migliaia di consulenti e collaboratori (più o meno pagati, più o meno tutelati). Ma anche per estendere il tempo reale di lavoro a tutte le ventiquattro ore, e a tutti i sette giorni della settimana. Perché, una volta che si è raggiungibili ovunque ci si trovi e in qualsiasi momento, diventa anche impossibile sottrarsi a richieste ‘improrogabili’, a compiti ‘urgenti’, a necessità impellenti. Anche se si è ormai fuori dall’ufficio (se l’ufficio esiste), anche se non si è più ‘formalmente’ in orario di lavoro, anche se si è virtualmente in vacanza. Delle utopie della rivoluzione digitale, come ha mostrato per esempio Carlo Formenti in alcuni suoi scritti recenti (soprattutto Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, Egea, Milano, 2011), è rimasto ben poco, e soprattutto si è dissolta completamente la convinzione ottimistica che davvero le nuove tecnologie possano essere strumenti capaci di consegnare ai singoli individui una maggiore autonomia rispetto alle richieste di un mercato vorace e onnipresente. E la crescita dell’orario di lavoro reale – non registrato dai cartellini, e non fissato nei contratti – è diventata un fenomeno così diffuso che persino l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme, dovuto non solo al fatto che un dipendente su cinque nel mondo lavora oggi più di quarantotto ore alla settimana, ma anche al conseguente aumento delle cause di rischio sanitario, con la lievitazione dal 30%  all’80% delle possibilità di contrarre patologie tumorali (cfr. E. Livini, L’era dell’ufficio no-limits, in «la Repubblica», 21 marzo 2011, pp. 31-33). Dinanzi a questa realtà, il mondo non ci appare allora quello dipinto da Rifkin nella Fine del lavoro, ma piuttosto come una sorta di dilatazione globale del modello Wal-Mart, che garantisce aumenti di produttività grazie una riorganizzazione del lavoro finalizzata ad aumentare gli orari e a distenderli sull’intera giornata.
Dopo il successo della Fine del lavoro, Rifkin ha diretto la sua attenzione verso l’energia, con il best-seller Economia all’idrogeno, le cui tesi sono state persino prese sul serio da qualche amministratore che – sottovalutando rischi e costi dell’utilizzo dell’idrogeno – ha avviato sperimentazioni ancora ben lontane dall’avere qualsiasi rilevante ricaduta. D’altronde, allo stato attuale, i costi di produzione, gestione e distribuzione sembrano ancora abissalmente distanti da poter avvicinarsi a una seppur timida realizzazione dei progetti di Rifkin. E, così, l’economia all’idrogeno sembra ancora rimanere solo un sogno.  Probabilmente, è però uno degli ultimi libri di Rifkin ad acquistare oggi un fascino quasi sinistro, perché nel suo formidabile Il sogno europeo lo studioso americano preannunciava al Vecchio continente un futuro radioso, in cui l’Unione Europea sarebbe stata capace, se non proprio di surclassare, comunque di insidiare gli Stati Uniti. Anche in questo caso, la suggestione della tesi nasceva dal rovesciamento dei luoghi comuni più consolidati: in sostanza, il sogno americano era stato offuscato da un nuovo sogno europeo, capace di coniugare giustizia sociale, tolleranza, pluralismo e persino l’idea che in campo internazionale fosse possibile influire esercitando solo una ‘potenza civile’ (e non militare). La cosa più significativa era che, in quel momento, Rifkin non solo non si accorgeva di tutti i limiti dell’Unione Europea e dell’unificazione monetaria, ma non sembrava neppure avere il sospetto che l’economia del Vecchio continente e il modello sociale europeo fossero già da tempo investiti da profonde trasformazioni. Oggi sappiamo come sono andate le cose. E se forse il ‘sogno europeo’ non è stato definitivamente archiviato, sicuramente rimane per ora soltanto un ‘sogno’, offuscato dalla realtà di una crisi di cui è molto difficile prevedere gli esiti.
Se si esamina a fondo la carriera di futurologo di Rifkin, si possono prendere allora le previsioni sulla «Terza rivoluzione industriale» come esercitazioni suggestive, ma ben poco credibili. Perché, in fondo, la profezia della fine del lavoro si è rovesciata nel suo contrario, l’annuncio sull’avvento dell’economia all’idrogeno rimane un’anticipazione visionaria, e la celebrazione del sogno europeo ha dovuto scontarsi con l’incubo che stiamo vivendo. E, così, più che un efficace futurologo, sembrerebbe un infallibile menagramo. Ora Rifkin predice l’inizio di una nuova «era collaborativa», un’era «orientata al gioco, all’interazione da pari a pari, al capitale sociale, alla partecipazione a domini collettivi aperti, all’accesso alle reti globali». E forse, visti i precedenti, vale la pena di iniziare a preoccuparsi.

Damiano Palano


lunedì 12 marzo 2012

Democrazia agli scienziati? Grazie, preferisco di no. Una recensione (critica) al pamphlet di Guido Corbellini "Scienza, quindi democrazia"

di Damiano Palano


(Questa recensione del volume di Guido Corbellini, Scienza, quindi democrazia, Einaudi, è apparsa, in una versione parzialmente diversa, su "Avvenire" del 10 marzo 2012).

Da più di mezzo secolo un importante filone della ricerca politologica si concentra sulle condizioni economiche, sociali e culturali che possono agevolare il successo dei processi di democratizzazione. Intervenendo in questa discussione, Gilberto Corbellini, storico della medicina alla Sapienza, propone di inserire anche la scienza tra i fattori che hanno storicamente favorito la democrazia. Il suo Scienza, quindi democrazia (Einaudi, pp. 165, euro 10.00) non è però un saggio politologico. Si tratta piuttosto di un pamphlet scritto con più di un occhio polemico rivolto allo scenario italiano. Più propriamente, si potrebbe dire, il libro di Corbellini trasuda livore quasi da ogni pagina. Un livore diretto contro le principali culture politiche italiane (di destra, sinistra e centro), accusate di essere del tutto insensibili alla causa della scienza, e contro la Chiesa cattolica, cui viene imputata la volontà di intralciare il cammino del progresso.
Al di là della curvatura polemica che caratterizza il pamphlet, la tesi del volume è estremamente semplice: la diffusione dello spirito scientifico avrebbe influito storicamente sulla genesi della democrazia, o meglio, della “liberal-democrazia”. E prove in questo senso sarebbero offerte, per esempio, dalla cultura scientifica dei ‘padri fondatori’ americani, come James Madison e Thomas Jefferson, i quali scrissero la Dichiarazione d’Indipendenza e la Costituzione federale come se fossero documenti ‘newtoniani’.
A dispetto di una tesi così lineare, anche il lettore più attento e simpatetico con le idee di Corbellini non può non essere distratto dalla messe di semplificazioni, deformazioni e (in qualche caso) autentiche enormità che si offrono quasi a ogni pagina del volume. Ma, per rimanere alla tesi centrale del lavoro, è piuttosto evidente come Corbellini, nel costruire le proprie argomentazioni, venga meno a una delle principali regole del metodo scientifico: la regola che impone di utilizzare termini con un significato ben preciso e di definire chiaramente quali sono le variabili di un’ipotesi. Nel campo delle scienze politiche e sociali questo principio metodologico è particolarmente rilevante. Semplicemente perché i termini politici assumono significati estremamente diversi a seconda del periodo storico, del contesto geografico, della prospettiva di chi li utilizza. Ma Corbellini viene meno proprio a questa regola basilare, impedendo così ogni seria discussione di un’ipotesi che rimane sempre formulata solo in termini impressionistici.
Nell’argomentare la propria tesi, Corbellini parla così talvolta di “democrazia”, in altri casi di “liberal-democrazia”, in altri ancora di “senso civico” e di “cultura civica democratica”, senza che il significato di questi termini venga specificato. Per esempio, non è allora chiaro se la “democrazia” richieda o meno il suffragio universale, o se la “liberal-democrazia” debba prevedere necessariamente il riconoscimento di alcuni diritti e libertà fondamentali. Ma, forse, questo silenzio non è fortuito. Perché, altrimenti, Corbellini dovrebbe riconoscere che la ‘newtoniana’ Costituzione americana non era poi così democratica, dal momento che era assai tiepida nel concedere il diritto di voto e che considerava del tutto legittimo l’istituto della schiavitù.
Per questi (e molti altri) motivi, il testo di Corbellini può offrire al dibattito sulla democrazia solo qualche sbiadita suggestione. Ma senza dubbio fa rivivere, in una forma piuttosto stilizzata, il vecchio sogno (o l’incubo) di una politica scientifica: non di una politica che tenga conto della scienza, ma di una politica consegnata nelle mani degli ‘scienziati’. In una simile visione, gli scienziati – liberi dall’intralcio di valori anacronistici, ideologie, religioni – sono ‘finalmente’ in grado di indicare agli esseri umani la ‘giusta’ direzione. Ma allora, al di là di tanta retorica, è piuttosto scontato cosa rimanga della democrazia. Ed è proprio per questo che la democrazia, così enfaticamente celebrata da Corbellini, finisce per tingersi di toni quantomeno sinistri.

Damiano Palano

sabato 3 marzo 2012

Il senso comune delle suocere (e dei politologi). Sull’ultimo libro di Ilvo Diamanti

di Damiano Palano


 Questo articolo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica - Rivista di politica on line


Quando Manzoni ricostruiva la caccia agli untori nella Milano sconvolta dalla peste, sapeva bene che non tutti gli abitanti del capoluogo meneghino erano davvero caduti in preda alla follia collettiva. «C’era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa». In realtà, come scriveva, «il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». È proprio questa frase manzoniana che chiude il recente volume di Ilvo Diamanti, Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche (Il Mulino, pp. 118, euro 10.00), e che spiega un titolo altrimenti piuttosto criptico. Naturalmente, l’obiettivo polemico di Diamanti non è il ‘senso comune’ dei milanesi del Seicento, perché le sue osservazioni caustiche sono indirizzate al ‘senso comune’ della comunità dei politologi e di quanti studiano per mestiere le trasformazioni politiche. E, per quanto celati dal garbo accademico, gli accenti polemici del suo discorso non possono sfuggire. D’altronde, il pamphlet di Diamanti riproduce sostanzialmente la prolusione presentata nel settembre 2010 all’Assemblea annuale della Società Italiana di Scienza Politica, e nel testo che appare ora la componente critica nei confronti della comunità professionale dei politologi italiani viene ulteriormente alla luce. Invitando, quantomeno, a una riflessione sui pilastri della disciplina.
In sostanza, l’accusa che Diamanti rivolge agli studiosi di politica è di avere adottato una serie di assunti che sono diventati i cardini del ‘senso comune’ politologico: convinzioni date per scontate, ribadite mille volte tanto da non essere più neppure discusse, ma in contrasto con quanto ci suggerisce il ‘buon senso’. Soprattutto perché, col tempo, quel ‘senso comune’ ci impedisce di capire cosa succede nel mondo reale. Se queste sono le premesse generali del discorso di Diamanti, le sue argomentazioni si sviluppano però su due livelli differenti.
In primo luogo, infatti, il bersaglio della polemica di Diamanti è una scienza politica che definisce come «statologica»: una scienza che si concentra cioè solo sulla dimensione istituzionale e su ciò che avviene ai ‘vertici’ del sistema politico, disinteressandosi invece di quanto avviene alla base, nei rapporti sociali. In questo modo, Diamanti contesta la validità della distinzione formulata negli anni Cinquanta del secolo scorso – e ripresa in Italia da Giovanni Sartori – fra la ‘scienza politica’, concentrata sulle istituzioni di governo, e la ‘sociologia politica’, deputata invece a studiare la società e i comportamenti individuali. Una simile ripartizione dei compiti, argomenta Diamanti, è sempre stata fuorviante, ma lo diventa ancora di più oggi, quando la gran parte delle trasformazioni chiama in causa la ‘persona’ (la ‘personalizzazione’ della politica, dei partiti, ecc.), e dunque una dimensione che non può essere ridotta alla sfera puramente istituzionale. «Per questo», scrive Diamanti, «diventa difficile sostenere l’esistenza di una distinzione netta fra scienza e sociologia (della) politica. O meglio: fra una lettura della politica come ‘produzione’ dello Stato e delle istituzioni oppure della società e dei suoi attori. E diviene difficile anche avanzare interpretazioni contrastanti, più che diverse, degli stessi fenomeni, che attraversano società e politica» (p. 20). Paradossalmente, dunque, mentre la dimensione personale e le dinamiche territoriali sono tornate a conquistare una crescente centralità nella politica reale, la politologia se ne è allontanata, considerando per esempio gli studi sulle subculture politiche territoriali come un campo estraneo alla scienza politica e proprio solo della sociologia, o, meglio, di un suo campo specifico. «È su questa incongruenza», scrive allora Diamanti, «che si sviluppa la mia riflessione. Che prende in considerazione la sfera della vita quotidiana e del senso comune per analizzare e comprendere non tanto l’ambito della micro-politica, ma della politica tout-court. Il campo delle istituzioni e delle organizzazioni politiche. Mi interessa, cioè, restituire la società alla politica, per favorire la comprensione – e prima ancora, l’osservazione – della politica, allargando lo sguardo su ambiti troppo spesso trascurati. Perché è la politica stessa a essere cambiata, ad aver allargato e, per alcuni versi ridefinito, il campo di azione e gli attori. E non possiamo rinunciare a comprendere la realtà per non mettere in discussione i nostri paradigmi. I nostri (pre)giudizi» (p. pp. 24-25).

Se la scienza politica «statologica» è il grande bersaglio contro cui si rivolgono gli assalti di Diamanti, gran parte delle sue osservazioni si volge verso avversari molto più specifici. Più precisamente, Diamanti prende infatti di mira due convinzioni che hanno strutturato negli ultimi due decenni il ‘senso comune’ politologico. In primo luogo, l’idea che i sistemi democratici contemporanei si trasformino – secondo la formula coniata negli anni Novanta da Bernard Manin – in una nuova ‘democrazia del pubblico’: una democrazia in cui gli elettori diventano passivi come il pubblico di uno spettacolo, cui è concesso solo di reagire con l’approvazione o il dissenso, ma non più di partecipare realmente come avveniva nella stagione della democrazia dei partiti. In secondo luogo, la tesi che nella nuova fase politica – segnata dalla mediatizzazione e della personalizzazione – le tradizioni politiche si siano dissolte, che l’identificazione coi partiti si sia del tutto volatilizzata, e che il voto sia diventato ‘liquido’, libero di fluttuare nel mercato politico alla ricerca della proposta più convincente o affascinante. «Il paradigma dominante», sintetizza dunque Diamanti, «sostiene che il declino delle appartenenze e delle organizzazioni politiche, e la parallela ascesa della comunicazione, riducono l’influenza delle strutture di riproduzione del consenso fondate sulle tradizioni sociali, ideologiche e locali. Accentuando l’importanza degli interessi individuali e di gruppo. In generale, attribuendo rilievo crescente alla razionalità economica, come principio e metro delle scelte personali. Tuttavia, nella ‘democrazia del pubblico’ i comportamenti individuali rischiano di venire riassunti e dedotti a partire da quelli dei leader e dalle strategie manipolatorie dei media» (p. 52). Una simile distorsione non nasce soltanto da un eccesso di sopravvalutazione del mutamento e dei suoi effetti, ma anche dalla stessa impronta genetica che contrassegna la politologia «statologica». «Il problema», secondo Diamanti, è infatti «che le concezioni ‘verticali’ della politica rendono difficile comprendere fino in fondo ciò che avviene nella società. Rendono difficile, altresì, interpretare i meccanismi che orientano le decisioni degli individui in tempi di individualizzazione. In particolare, la retorica del cambiamento guidato dalle istituzioni e dalla comunicazione induce a sottovalutare il peso e le resistenze della ‘tradizione’. Da ciò la singolare e sintomatica contraddizione fra previsioni e realtà in alcuni ambiti di ricerca tra politica e società» (pp. 52-53).

In realtà, come chiarisce Diamanti, le cose sono molto diverse da come vengono descritte dal ‘senso comune’ politologico. E, così, lo sguardo della suocera, fra gli scaffali di un supermercato, riesce a percepire la sensibilità degli italiani forse meglio di quello degli esperti. Perché il cittadino-elettore non è un elemento così passivo come pretende l’immagine della ‘democrazia del pubblico’. Perché il voto non è diventato affatto liquido, ma tende a muoversi (soprattutto in Italia) all’interno di compartimenti stagni, entro limiti di area piuttosto precisi. E, infine, perché le tradizioni politiche continuano a contare e a orientare i comportamenti politici, nonostante la colorazione e i contorni di queste tradizioni siano talvolta cambiati. «L’avvento della comunicazione di massa, della democrazia del pubblico», secondo Diamanti, «non ha dissolto questo retroterra», e «neppure ha spostato il metro di valutazione degli elettori dai valori agli interessi, dall’identità sociale alla razionalità individuale» (p. 94). Ciò non significa che gli elettori votino in modo irrazionale. Ma solo che, per comprendere davvero le logiche che orientano i comportamenti, è necessario adottare una prospettiva più attenta alle relazioni micro-sociali. Ed è proprio in questa direzione che Diamanti indica l’utilità di una sorta di prospettiva ‘fenomenologica’: una prospettiva capace di ricostruire la mappa delle ‘micro-relazioni’ sociali in cui gli individui – anche oggi – continuano a maturare le loro posizioni e le loro incrollabili certezze, e così di percepire davvero la fisionomia di quel ‘senso comune’ che – magari in aperta contrapposizione con il ‘buon senso’ – indirizza il comportamento politico dei cittadini. Ovviamente, il ‘buon senso’ di cui parla Diamanti richiama l’importanza della ‘tradizione’, ma non può essere confuso con un’immagine ‘tönniessiana’ della comunità, ossia con una visione della Gemeinschaft come qualcosa che affonda le radici nella storia e che riaffiora sotto la scorza superficiale della Gesellschaft. Il ‘senso comune’ è piuttosto – nella rappresentazione che ne fornisce Diamanti – l’esito di una costruzione sociale, e dunque un tessuto di significati cui ognuno di noi attinge per interpretare la realtà e per compiere delle scelte. Ed è proprio la sottovalutazione di questo senso comune – centrale anche nella società mediatizzata – che condanna il ‘senso comune’ dei politologi a formulare previsioni sbagliate e a rimanere prigioniero di una sorta di ‘dissonanza’. «Questa dissonanza fra pre-visioni e realtà, la stessa difficoltà a rilevarla e a riconoscerla» – conclude allora – «non possono non sollevare dubbi sull’adeguatezza degli strumenti teorici e metodologici adottati. Ho il sospetto, cioè, che gli approcci prevalenti negli studi e tra gli specialisti politici stentino a comprendere i cambiamenti, ma anche gli avvenimenti e i fenomeni più importanti dei nostri tempi. Perché concentrano la loro attenzione – spesso in modo esclusivo – sulle istituzioni e sugli attori politici a livello ‘macro’ mentre sottovalutano, in particolare, quel che si muove nella società. Non solo, ma si disinteressano delle percezioni che si formano e prevalgono nelle relazioni interpersonali e locali. Ambiti ritenuti poco rilevanti, dal punto di vista euristico ma, prima ancora, epistemologico. Variabili socio-centriche inadatte, in quanto tali, a spiegare i fenomeni politici» (p. 84).
Al di là della curvatura polemica, la proposta di Diamanti non può passare inosservata, perché invita a mettere in questione molte ‘macro-teorie’ che hanno dominato negli ultimi anni e a impegnarsi in una fenomenologia del ‘senso comune’. Una fenomenologia che prenda davvero sul serio la cultura e il modo con cui gli individui si rapportano con il mondo della politica. E che riesca così a esplorare i mutamenti più profondi della società italiana, magari partendo proprio dal ‘senso comune’ delle suocere.
C’è però anche un altro motivo per cui la provocazione di Diamanti dovrebbe essere presa in seria considerazione dalla comunità politologica. Quando attacca la scienza politica «statologica», Diamanti mette infatti in discussione la distinzione fra ‘scienza politica’ e ‘sociologia politica’ canonizzata in Italia da Giovanni Sartori: proprio questa distinzione, a ben vedere, ha finito non solo col recidere uno dei rami più ricchi della ricerca italiana, ma anche col rimuovere la lezione delle vecchie scienze sociali di inizio Novecento, che non cessarono mai di ricercare la base più profonda dei processi di aggregazione politica nei fenomeni micro-sociali e nei rapporti inter-individuali. E non si tratta, per la verità, soltanto di aver dimenticato Tönnies, Simmel e Weber. Si tratta anche di aver perpetuato modelli di spiegazione del rapporto fra cultura e politica (fra la cultura politica dei singoli e il funzionamento del sistema politico) del tutto ideologici, come quelli proposti dalla political science americana degli anni Cinquanta e Sessanta, evitando così di confrontarsi con la sfida della ‘svolta culturale’. Per questo, la provocazione di Diamanti dovrebbe quantomeno aprire un dibattito che riesca finalmente a ‘prendere sul serio’ la cultura anche in campo politico e a fare i conti con tutte le residue scorie dell’ormai lontana infatuazione comportamentista.
Probabilmente, c’è però un passaggio, nel discorso di Diamanti, che appare poco convincente, o quantomeno poco chiaro. Si tratta in particolare dell’accusa che muove alla scienza politica di avere adottato una chiave di lettura «statologica» e di essere rimasta in sostanza una variante moderna della vecchia ‘scienza dello Stato’. Questo passaggio è poco convincente perché, per la verità, la scienza politica post-bellica, e sulla sua scia anche quella italiana, ha bandito persino dal proprio lessico la parola «Stato», preferendole l’espressione ‘sistema politico’. Naturalmente, la scienza politica ha continuato ad adottare una prospettiva centrata sulla dimensione ‘verticale’ della politica, ossia proprio sull’azione che il sistema politico esercita sulla società (e non viceversa), tanto che la linea di demarcazione fra scienza politica e sociologia politica poteva essere ritrovata proprio nel differente modo di guardare alle stesse cose. Con il passaggio, all’apparenza puramente lessicale fra lo ‘Stato’ e il ‘sistema politico’, la scienza politica innescava in realtà una serie di trasformazioni ben più profonde, destinate a imprimersi nel codice genetico della disciplina e a indirizzarne il percorso successivo. In termini estremamente sintetici, si può dire infatti che la scienza politica postbellica – una scienza politica che forse oggi non esiste neppure più – rimuoveva dal proprio campo analitico ciò che, a lungo, era rimasto il vero cuore della riflessione sui fenomeni politici, ossia i meccanismi della produzione, dell’accrescimento e della conservazione del potere. In connessione con una congiuntura articolata – di cui ho cercato di delineare alcuni tratti, in modo forse un po’ impressionistico, nella prima parte di Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia, Vita e Pensiero, Milano, 2005 – la scienza politica è riuscita a costruire un’identità specifica, fondata su una serie di confini con le discipline vicine: non solo con la sociologia politica, ma anche con la filosofia politica, con la storia e con le scienze giuridiche. Quell’operazione – che trovava il proprio saldo riferimento nell’ambizione del linguaggio politologico di essere ‘puro’, libero da qualsiasi incrostazione ideologica e filosofica – aveva fin dagli inizi delle evidenti implicazioni politiche, e non è affatto casuale che la scienza politica italiana abbia ingaggiato, fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, una lotta senza quartiere contro le principali culture politiche italiane. Se oggi le premesse teoriche di quella ‘scienza politica’ sono state quantomeno profondamente ridimensionate, le conseguenze di quella genesi non sono affatto esaurite. Ma il problema non è tanto quello di una scienza «statologica», quanto piuttosto di una scienza che ha introiettato un’immagine dello Stato del tutto semplicistica, sovraccarica di strabordanti elementi normativi, e che ha finito col collocare la sagoma del ‘sistema politico’ in una sorta di vuoto pneumatico.
Certo ha ragione Diamanti nel prendere di mira l’enfasi della ‘democrazia del pubblico’ o la convinzione che le tradizioni politiche si siano dissolte nell’aria. Ma la responsabilità non sta tanto nel fatto di avere concentrato lo sguardo solo sul ‘vertice’ dello Stato, quanto nell’aver sposato acriticamente una visione del tutto irrealistica dello Stato, rimuovendo del tutto il problema del potere. Così, quando al termine della Guerra fredda quella rappresentazione stilizzata delle dinamiche interne al sistema politico è risultata inservibile, il discorso politologico ha iniziato a girare a vuoto, finendo col ricorrere alle spiegazioni più scontate. Il ‘senso comune’ dei politologi – non meno di quello delle massaie spesso dileggiate dai commentatori – ha così seguito, assecondato, propalato le più fruste mode ideologiche: di volta in volta, le idee che la globalizzazione avesse reso obsoleta la politica, che lo Stato si trovasse a ritirarsi dalla società per dare sfogo al libero gioco degli interessi privati, che l’Unione europea fosse una sorta di paradiso in terra capace di aprire a ogni comunità nazionale un futuro rigoglioso, che dopo l’11 settembre fossimo alle prese con un fatale scontro di civiltà e che il destino del mondo dipendesse dall’esito della sfida indirizzata all’Occidente da un manipolo di terroristi fanatici. Nel corso di questo profluvio di retorica e luoghi comuni, qualcuno – con uno sforzo degno di Vyšinskij – si è spinto addirittura a riconoscere nell’incerta architettura istituzionale europea la sagoma prepotente di una democrazia già ben delineata. Fino a che, dopo il 2008, tutto è sembrato crollare. E, allora, ci si è accontentati di riconoscere alla base della fine delle speranze della globalizzazione, del tradimento del sogno europeo o del declino degli Stati Uniti soltanto l’effetto (imprevedibile) della crisi dei mutui subprime.
Per quanto i rilievi di Diamanti siano più che legittimi e più che giustificati, la situazione è forse ancora più grave di quanto appaia dal suo caustico pamphlet. Perché ci si potrebbe chiedere cosa ha realmente da dire la scienza politica contemporanea sui processi di trasformazione dello Stato, sul mutamento radicale dei sistemi rappresentativo-elettivi occidentali, sulla modificazione strutturale dei rapporti fra economia finanziaria e Stato, sulla ridefinizione degli equilibri geopolitici e delle sue ricadute sui modelli sociali più consolidati. Sarebbe sin troppo generoso affermare che la scienza politica ha soltanto lambito tali questioni, e chiunque sfogli un manuale introduttivo alla disciplina – in cui l’«ambiente internazionale» compare fugacemente soltanto alla fine, un po’ come il bidello in aula quando suona la campanella – non può non rendersene conto senza troppe difficoltà.
Un critico dice che le ultime trenta annate delle riviste politologiche saranno utili nei prossimi anni solo come combustibile per qualche vecchia stufa. Probabilmente si tratta di un giudizio sin troppo severo. Ma è chiaro a tutti che le nuove generazioni dovranno faticare non poco a trovare qualcosa di utile in quelle migliaia di pagine. E che per loro non sarà così facile liberarsi di un ‘senso comune’ ormai insostenibile, senza chiedersi, al tempo stesso, se volgersi alla scienza politica per spiegare il mondo rimanga ancora una scelta di ‘buon senso’.

Damiano Palano

** Ilvo Diamanti, Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 118, euro 10.00.