domenica 26 febbraio 2012

Il mercato contro la democrazia. A proposito di André Orléan e del "Manifesto degli economisti sgomenti"



 
di Damiano Palano


It’s the economy, stupid! Questa frase, adottata come slogan elettorale da Bill Clinton nella sua prima campagna presidenziale, è diventata, nel corso di un ventennio, ben più che familiare a chiunque segua – persino un po’ svogliatamente – i dibattiti politici e giornalistici. In effetti, proprio a partire dagli anni Novanta è divenuto abituale riferirsi alla quotidiana pressione esercitata dai mercati sul potere degli Stati nazionali, e lo slogan clintoniano fissava, in modo senza dubbio efficace, proprio la convinzione che le strutture economiche, le transazioni finanziarie, il ruolo della imprese multinazionali siano ‘vincoli’ sostanzialmente immodificabili e inaggirabili (oltre che solo parzialmente ‘addomesticabili’) da parte della politica, e che pertanto le democrazie siano costrette a prendere atto che – al di sopra del loro potere ‘sovrano’ – stanno altri attori, forse non propriamente ‘sovrani’, ma comunque capaci di influenzare le scelte politiche e di sottrarsi al controllo degli Stati. Anche la percezione del ruolo ‘sovrano’ del mercato è diventata più o meno un luogo comune, così come l’idea che i mercati agiscano sui singoli Stati nazionali e sulle scelte delle leadership democraticamente elette, mentre la convinzione che la democrazia risulti ‘svuotata’ dell’economia globale e dai suoi attori è ormai diventata quasi triviale, da non apparire sorprendente per nessuno. Ciò nonostante, molti osservatori hanno individuato nelle dinamiche della crisi finanziaria contemporanea un vero e proprio salto di qualità, che va ad approfondire quello squilibrio fra politica e mercato che le dinamiche della ‘globalizzazione’ hanno consolidato da più di un ventennio.
Intervenendo per esempio pochi giorni dopo l’invio della lettera del Governatore della Banca Centrale Europea al Governo italiano, nell’agosto 2011, Roberto Esposito ha intravisto nella crisi odierna i tratti di una sfida cruciale posta dai mercati alla politica: «Mai la politica è apparsa così indifesa rispetto all’andamento delle borse, o addirittura a bande di speculatori che scommettono sul fallimento di interi Stati, rischiando di fatto di provocarlo. Che ciò possa accadere attraverso un insieme di dispositivi finanziari capaci di aggredire un obiettivo sensibile in maniera simultanea da molteplici parti, è un ulteriore sintomo della debolezza della politica, non solo rispetto all’economia, ma anche all’apparato tecnologico che ormai fa tutt’uno con essa. Stretta in tale morsa, la sovranità statale appare ridotta ai minimi termini, se persino la prima potenza mondiale è soggetta a spinte che mostra di non saper controllare adeguatamente. In alcuni casi si direbbe che gli Stati non siano in grado di decidere neanche i tempi della propria resa» (R. Esposito, Non rassegnarsi al mercato sovrano, in «la Repubblica», 13 agosto 2011, p. 1).
C’è d’altronde un fatto sicuramente nuovo nella situazione di questi ultimi anni: un fatto che investe in particolare il ruolo delle istituzioni europee e soprattutto la convinzione riposta nella loro possibile azione. Negli anni Novanta (e almeno fino al 2005), alle letture dedicate alla globalizzazione e alla (più o meno lineare) conseguenza dello ‘svuotamento’ della democrazia, facevano seguito, quasi invariabilmente, ferme dichiarazioni di fiducia rivolte all’Unione Europea, considerata come l’àncora capace di dare stabilità ai piccoli e traballanti Stati del Vecchio continente anche nei mari tempestosi dell’economia globale. Legioni di economisti, giuristi e politologi hanno così continuato, per circa due decenni, a spalmare la melassa della retorica europeista sulla realtà dei meccanismi istituzionali dell’Ue: meccanismi evidentemente molto lontani dal configurare l’ombra di una democrazia (e che solo generosamente qualcuno ha avuto il coraggio di definire come una «democrazia composita»), oltre che molto lontani dal garantire una reale efficienza e una reale coerenza al governo dell’Unione. Neppure la più robusta corazza ideologica può però riuscire oggi a mascherare una realtà evidente a chiunque: una realtà in cui gli Stati membri – e soprattutto le principali potenze dell’area dell’euro – assumono il ruolo di un autentico ‘Direttorio’, mentre la Commissione arretra sempre più verso le quinte di un palcoscenico dove si alternano i toni della farsa a quelli della tragedia. E in cui la sospirata governance europea si ‘dissolve’ nell’aria, insieme a tutte le formule costruite in vent’anni da scienziati sociali entusiasticamente accorsi a indossare l’abito di vestali della ‘tecnocrazia’ di Bruxelles. Oggi – per usare le parole di Guido Rossi, nel momento per ora più critico della crisi europea, quello compreso fra la cancellazione del referendum greco sugli aiuti comunitari e il varo, in Italia, dell’esecutivo ‘tecnico’ guidato da Mario Monti – è diventato chiaro cosa si nasconda davvero dietro le immagini più confortanti della governance europea: «La tragedia dell’Europa è che tale governance non esiste e che le istituzioni dell’Unione non godono di sufficiente autorevolezza, sicché il risultato è che le singole parti urlano, impongono e l’insieme tace e subisce. Il deficit dei meccanismi istituzionali ha il suo punto massimo nello sconcertante ruolo che ha assunto la Bce, divenendo il vero strumento di politica economica non solo dell’Unione bensì anche dei singoli Stati, se è vero che nessuno si vergogna di dire che la manovra italiana è stata dettata da una lettera della stessa Bce. Si tratta tuttavia di una superpotenza non legale, senza contare che l’intero degrado del meccanismo istituzionale dovrebbe vedere competente la Corte di giustizia europea» (G. Rossi, Il deficit di democrazia fa più danni del debito, in «Il Sole-24 Ore», 11 settembre 2011, p. 1). Ma, in questa crisi, non emergono solo i ritardi e le insufficienze delle istituzioni comunitarie, perché – in modo ancora più netto – emerge l’insufficienza della politica e dei suoi strumenti dinanzi alla realtà delle dinamiche economiche. Il contrasto fra le logiche prioritarie dell’Unione e il carattere democratico delle decisioni europee ha assunto proporzioni drammatiche nel caso del referendum greco sul piano della Bce, prima indetto dal governo di Atene e in seguito cancellato per diretto intervento di Francia e Germania, per i timori della «vendetta dell’agorà» contro il «cieco governo tecnocratico-finanziario» (G. Rossi, L’Europa tecnocratica, la ‘vendetta dell’agorà’, in «Il Sole 24 Ore», 6 novembre 2011). E, come ha scritto Frank Schirrmacher sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung»: «È sempre più chiaro che quello che l’Europa sta vivendo al momento non è un episodio, bensì un conflitto di potere fra il primato dell’economia e il primato della politica. Il ‘politico’ ha già perso massicciamente terreno, e ciò è indicato dal fatto che tutti i concetti politici che sono stati associati all’Europa unita, sono sparsi al vento come cenere» (Demokratie ist Ramsch, in «Frankfurter Allgemeine Zeitung», 1 novembre 2011). In modo ancora più radicale, Vittorio Parsi ha scritto che la cancellazione del referendum greco sugli aiuti dell’Ue può essere paragonata alla Conferenza di Monaco del 1938, con cui le grandi potenze imposero alla Cecoslovacchia di cedere i Sudeti alla Germania di Hitler per salvaguardare la pace mondiale. Allo stesso modo, oggi, i ‘grandi’ della comunità internazionale impongono ai greci di rinunciare alla loro ‘sovranità, o quantomeno alla loro democrazia. L’alternativa – sostiene invece Parsi – non è fra la salvaguardia del mercato, da un lato, e, dall’altro, la difesa della democrazia: «o riusciamo a salvare insieme mercato e democrazia, politica ed economia, oppure in seguito e a causa delle ferite e umiliazioni che imponiamo alla democrazia finirà con il morire anche il mercato: ma non gli speculatori, ovviamente, che sanno fare i propri interessi in qualunque sistema economico, tanto in pace quanto in guerra» (V.E. Parsi, Ma non sia un altro ’38, in «Avvenire», 6 novembre 2011, p. 1).

Dopo l’ennesimo – forse definitivo – attacco sferrato dall’Ue contro la Grecia in queste ultime settimane, è davvero difficile non concordare con tutte queste diagnosi, sia nel momento in cui si soffermano sui limiti strutturali dell’Ue, sia nel momento in cui segnalano la necessità di difendere la democrazia dal ricatto dei mercati e dalle decisione delle grandi potenze. Ma – è bene dirlo – l’idea di difendere la democrazia dal potere distruttivo del mercato va a confliggere con quella ‘grande narrazione’ che ha dominato il dibattito politico e intellettuale post-bipolare. Una ‘grande narrazione’ che – come scrive Aldo Schiavone – «pretendeva che l’anarchia capitalistica globale che abbiamo sperimentato negli ultimi decenni fosse l’unica risposta possibile, e che l’assoluta anomia dei mercati coincidesse con il migliore mercato pensabile»; quasi che – continua Schiavone – «la globalizzazione dovesse inevitabilmente portare con sé, quale conseguenza inevitabile, una totale assenza di regole, e un ritrarsi sconfitto della politica da ogni luogo che contasse per dare una forma alle nostre vite» (A. Schiavone, Se il crollo dei mercati trasforma la democrazia, in «la Repubblica», 21 agosto 2011, p. 1). Ma, se il fascino di quella narrazione appare quantomeno offuscato, risulta in realtà piuttosto complicato comprendere se, quando e in che modo la ‘politica’ possa davvero tornare a esercitare un ‘governo’ sul mercato globale. In questo senso, per quanto si possa senz’altro concordare (almeno in parte) con Schiavone quando scrive che «la rivoluzione tecnologica ha trasformato le basi sociali delle nostre democrazie», e che si è dissolto il tessuto democratico che «aveva al suo centro il vecchio lavoro produttivo di merci materiali» e che «aveva come punto di riferimento un capitale poco mobile, fortemente radicato nel territorio e nella sua storia demografica e sociale» (ibidem), diventa molto più difficile seguirne il discorso quando evoca la realtà del nuovo lavoro: un lavoro «ad alta intensità tecnica e conoscitiva» e che richiede per svilupparsi «una relazione strettissima fra innovazione tecnologica e trasformazione finanziaria dell’economia», fra «lavoro e capitale finanziario» (ibidem), e su cui diventa possibile far leva per pensare un nuovo governo sul mercato. Tanto che chiamare – come fa Schiavone – la politica a «disegnare lo scenario che ci aspetta» (ibidem), finisce col suonare solo come un motivo rituale, non molto diverso in fondo da quella che faceva da immancabile corollario alla celebrazione del ruolo dell’Ue. Soprattutto perché non si capisce bene quali possano essere oggi i soggetti politici realmente in grado di «disegnare lo scenario che ci aspetta» (dal momento che persino quella che fino a pochi anni fa veniva descritta come l’unica e incontrastata «superpotenza globale» appare come quasi totalmente priva di risolutivi strumenti di azione). 

In effetti, evocare la ‘politica’ come strumento capace di regolare l’economia, come strumento per ‘controllare’ i mercati, o per mettere un freno al panico finanziario (o all’azione degli «speculatori»), rischia di diventare poco più di un vano esercizio retorico. Perché significa trascurare la portata delle trasformazioni che sono avvenute a livello economico negli ultimi trent’anni, e che ovviamente hanno massicce ricadute sulla realtà delle nostre democrazia. Per comprendere alcune componenti di queste trasformazioni risulta per molti versi imprescindibile il lavoro svolto in questi anni dallo studioso francese André Orléan, directeur de recherche al Cnrs (Centre National de la Recherche Scientifique), di recente insignito del prestigioso premio Paul-Ricœr per il suo libro L’Empire de la valuer. Refonder l’economie (Seuil, 2011). Una delle tesi principali di Orléan – di cui è stata pubblicata dall’editore Ombre corte di Verona una raccolta di interventi proprio sulla crisi finanziaria (Dall’euforia al panico, a cura di Andrea Fumagalli e Stefano Lucarelli) – consiste nell’idea secondo cui il mercato finanziario non si regge su basi ‘oggettive’, ma solo su ‘convenzioni’, che gli operatori adottano per compiere le loro scelte e che la ‘scienza economica’ considera fondate. Ciò ha ovviamente una serie di conseguenze di non poco conto sulla dinamica della crisi contemporanea e sullo stesso tipo di rapporti che intercorrono fra Stato e mercato. In effetti, il problema dello strapotere dei mercati tende a essere considerato in termini impropri, se si immagina il ‘mercato’ nei termini in cui ne parlavano, per esempio, Adam Smith o Friedrich von Hayek. Come osserva in questo senso lo stesso Orléan in un’interessante intervista rilasciata a Frédéric Joignot e pubblicata sull’inserto culturale di «le Monde»: «Quando si dice ‘i mercati’, non si parla affatto dell'economia di mercato, né del mercato dei beni. Si parla dei mercati finanziari. Se ne parla come se riassumessero l'intera economia, e come se fossero razionali e stabili. Se fossero in grado di produrre stime accurate dei valori e dei prezzi, il loro ruolo sarebbe utile. Il problema è che non lo sono. Sono, da questo punto di vista, molto diversi dai mercati dei beni. Questi si occupano di beni reali, con un’utilità che i consumatori possono giudicare, mentre i mercati finanziari si basano su delle valutazioni soggettive, altamente speculative. Si tratta di mercati di promesse. Si comprano e vendono le aspettative. La loro logica è di natura mimetica: ogni investitore si posiziona in funzione di quello che gli altri faranno. Sono molto simili a quei media che cercano di scoprire non le informazioni importanti, ma quelle suscettibili di essere apprezzate dal pubblico. Per questo motivo, un mercato finanziario è per sua natura mobile, instabile, pieno di deviazioni incontrollate. Così produce inevitabilmente delle bolle che esplodono quando lo scarto rispetto alla realtà diventa troppo grande per essere negato. La teoria liberale vorrebbe farci credere che i mercati finanziari forniscono valori pertinenti, dei prezzi obiettivi, e che alla fine l’autoregolazione riuscirà a imporsi. È così che la finanziarizzazione è stata venduta alle popolazioni. Questo edificio è stato completamente smentito dalle crisi che si sono succedute, dopo il 1987 fino allo tsunami finanziario del 2007 e alla crisi odierna» («Le marché gouverne», in «culture&idees - le monde», 21 gennaio 2012, p. 1).

Questa stessa lettura viene ripresa, oltre che negli scritti teorico-analitici di Orléan, anche nel Manifeste d’économistes atterrés, apparso in Francia nel 2010 e pubblicato in italiano proprio in questi giorni (Manifesto degli economisti sgomenti. Capire e superare la crisi, minimum fax, pp. 126, euro 7.50). Nel manifesto – steso da un gruppo di economisti di cui, oltre a Orléan, fanno parte Philippe Askenazy, Thomas Coutrot, Henri Sterdyniak – vengono innanzitutto smontate alcune delle «false certezze» sulla crisi, la prima delle quali è proprio che i mercati finanziari siano efficienti, ma alla quale se ne accompagna una seconda, forse ancora più rilevante sotto il profilo politico, ossia la convinzione che i mercati finanziari favoriscano la crescita economica. Infatti, l’integrazione finanziaria ha modificato la stessa logica d’impresa, schiacciando la prospettiva temporale sul breve periodo con cui l’azionista valuta la redditività del proprio investimento finanziario. Come scrivono gli ‘economisti sgomenti’: «L’integrazione finanziaria ha aumentato notevolmente il potere della finanza perché ha unificato e centralizzato a livello globale la proprietà dei capitali. Essa determina oggi gli standard di redditività che vengono richiesti all’insieme dei capitali. Il progetto iniziale era che i mercati finanziari avrebbero sostituito le banche nel finanziare gli investimenti, ma tale progetto è fallito, al punto che oggi, nel complesso, sono le imprese a finanziare gli azionisti e non il contrario. La governance aziendale è stata profondamente trasformata per soddisfare gli standard di redditività imposti dal mercato. Con l’affermazione del concetto di creazione di valore azionario si è imposta una nuova visione dell’impresa e del suo management, in cui l’impresa viene concepita come un’entità al servizio degli azionisti. L’idea di un interesse comune tra i diversi partecipanti all’impresa è scomparsa. I dirigenti delle imprese quotate in borsa perseguono oggi il principale ed esclusivo obiettivo di soddisfare il desiderio di arricchimento degli azionisti. Di conseguenza, essi cessano di essere dei dipendenti, come mostrano gli aumenti eccessivi delle loro retribuzioni. Come sostenuto dalla teoria dei rapporti di agenzia, l’obiettivo è quello di far sì che l’interesse dei manager converga con quello degli azionisti» (ibi, pp. 16-17). Ciò ha inevitabilmente degli effetti dirompenti sotto il profilo politico e sociale: «Di fronte a questo potere, gli interessi dei salariati, così come la sovranità politica, sono stati messi ai margini. Tale squilibrio ha condotto a un’irragionevole richiesta di profitti che ostacola la crescita economica e alimenta un aumento delle disuguaglianze di reddito. Da una parte, l’esigenza di una redditività elevata frena il livello degli investimenti: maggiore è il rendimento richiesto, più difficile diventa trovare progetti che siano abbastanza competitivi da soddisfare tali esigenze. Così, i tassi di investimento rimangono storicamente bassi in Europa e negli Stati Uniti. Dall’altra parte, queste esigenze causano una costante pressione al ribasso sui salari e sul potere d’acquisto, cosa che non favorisce certo la domanda. La frenata simultanea degli investimenti e dei consumi porta a un livello di crescita e a una disoccupazione endemica. Questa tendenza è stata contrastata nei paesi anglosassoni attraverso un aumento del debito delle famiglie e attraverso bolle speculative che, creando una ricchezza illusoria, favoriscono l’aumento dei consumi senza aumento dei salari, ma si concludono con un crollo dell’economia» (ibi, p. 17).
L’elenco delle «false certezze» messe in fila dagli «economisti sgomenti» è piuttosto lungo, e, sebbene i loro rilievi non siano certo particolarmente eterodossi, si tratta proprio delle ‘convinzioni’ che vengono quotidianamente propalate, sia dagli osservatori ‘imparziali’ sia dagli stessi operatori politici, e, soprattutto, delle ‘certezze’ che ispirano gli interventi volti a fronteggiare la crisi. Più precisamente, alcune «false certezze» riguardano i debiti pubblici e l’origine della loro crescita, un tema che si è prestato – e si presta tuttora – a una serie di letture quantomeno deformate, che attribuiscono la crescita del debito (soprattutto nell’Eurozona) all’incremento sproporzionato della spesa sociale. In realtà, le cose stanno diversamente, almeno se si considera l’andamento della spesa pubblica dall’inizio degli anni Novanta. Come scrivono in questo senso i quattro studiosi: «l’aumento del debito pubblico, in Francia come in molti altri paesi europei, era inizialmente moderato e, prima della recessione, non dipendeva da un aumento della spesa pubblica – dato che al contrario, in proporzione al Pil, la spesa pubblica in Europa si è mantenuta stabile, se non in calo, a partire dai primi anni Novanta – ma dall’erosione delle entrate pubbliche. Quest’ultima era dovuta a una debole crescita economica e alla controrivoluzione fiscale condotta da molti governi negli ultimi venticinque anni. Nel lungo termine, la contro-rivoluzione fiscale ha alimentato la crecita del debito passando da una recessione a un’altra. Considerato che nel frattempo nessuna armonizzazione fiscale ha avuto luogo, in Europa gli stati hanno avviato una concorrenza fiscale fra di loro, abbassando le imposte sulle imprese, sui redditi elevati e sui patrimoni» (ibi, pp. 22-23).

In realtà, sempre a proposito del debito pubblico, viene smentita anche un’altra «certezza», anch’essa di enorme impatto emotivo: l’idea che la crescita del debito pubblico implichi un trasferimento di ricchezza a danno delle generazione, e che per questo – come avviene in una famiglia in cui il padre si sia indebitato fino al collo per sostenere un tenore di vita dissoluto – sia necessario prendere atto che ‘abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità’. Ma la dinamica macroeconomica non funziona come l’economia domestica, e il trasferimento di ricchezza realizzato con il debito pubblico – un trasferimento che pure esiste – non avviene dai padri ai figli, bensì da alcuni strati sociali ad altri: e cioè, dai contribuenti, ossia dai lavoratori e dalle imprese che pagano le tasse, agli azionisti, ossia a coloro che prestano soldi allo stato. Questo meccanismo in Italia ha avuto una funzione formidabile, perché, se si volesse esaminare in modo approfondito la storia del nostro paese nel corso degli ultimi trent’anni, proprio il debito pubblico – a partire dalla fine degli anni Settanta e per tutti gli anni Ottanta – ha rappresentato non solo un formidabile strumento di redistribuzione della ricchezza (di cui ha naturalmente beneficiato anche il vecchio ‘bot people’ dell’era craxiana), ma anche un eccezionale meccanismo che ha consentito alle imprese (alle grandi imprese in particolare), uscite indebolite dalla crisi degli anni Settanta, di recuperare mediante la rendita finanziaria quella redditività persa sul mercato dei beni. In termini storici, come osservano gli «economisti sgomenti», la radice di questo meccanismo può essere ritrovata nella svolta con cui gli Stati Uniti decisero, a partire dagli anni Ottanta, di incentivare la crescita riducendo l’imposizione fiscale. Anche gli Stati europei, nella convinzione (raramente confermata dalle evidenze empiriche) che la diminuzione delle tasse favorisca la crescita, hanno imitato la politica americana. Ma il risultato è stato che, per finanziare la spesa pubblica, si sono dovuti rivolgere al mercato: «Tali politiche hanno costretto i governi a prendere a prestito denaro dalle famiglie più ricche e dai mercati per finanziare i deficit così creati. Si potrebbe a questo proposito parlare di ‘effetto jack-pot’: con i soldi risparmiati sulle tasse, i ricchi hanno potuto acquistare i titoli del debito pubblico emessi per finanziare il deficit causato dalla riduzione delle tasse. È sorprendente come i leader politici siano riusciti a convincere che i lavoratori, i pensionati e i malati siano responsabili del debito pubblico. […] Nel complesso, si è messa in moto una forma di redistribuzione verso l’alto, dalle classi più povere alle più ricche, attraverso il debito pubblico, la cui controparte è sempre la rendita privata» (p. 28). Da questa dinamica deriva un’ulteriore conseguenza, che aiuta quantomeno a smontare un’altra «falsa certezza», ossia che la riduzione del debito richiede un taglio della spesa pubblica: in realtà, infatti, se il debito pubblico dipende da un lato dal livello dei deficit primari, dall’altro dipende – soprattutto in questa fase storica – dalla differenza tra il tasso d’interesse e il tasso di crescita dell’economia. Ed è evidente che un sensibile rallentamento della crescita – o addirittura una vera e propria ‘recessione’, come quella che l’Italia ha vissuto negli ultimi anni, e come quella che si appresta a vivere nel 2012, non può che ridurre gli introiti fiscali, aumentando così lo scarto rispetto ai costi del debito. E, dato che una brusca e radicale riduzione della spesa pubblica può (molto probabilmente) determinare effetti recessivi (soprattutto se attuata contemporaneamente in tutti i paesi di una zona fortemente integrata e per molti versi ‘chiusa’ al proprio interno), la previsione sugli effetti di una misura del genere non è certo positiva: «L’unico effetto di una massiccia e simultanea riduzione della spesa pubblica in tutti i paesi europei sarebbe così una recessione ancora più forte e un ulteriore aumento del debito pubblico» (p. 25).
Naturalmente, il debito pubblico ha radici profonde e non è causato dall’introduzione dell’euro. Ma, senza dubbio, la creazione dell’Eurozona ha modificato, nel corso di dieci anni, la situazione in cui si trovavano molti paesi del Vecchio continente. I motivi per cui la moneta unica è stata considerata dalle leadership europee come uno strumento prezioso sono noti. Per un verso, i paesi forti – come principalmente la Germania – vedevano nell’euro un modo per ridurre il peso del marco e, così, per attenuare la concorrenza ‘sleale’ di quei paesi che potevano ricorrere alla svalutazione delle loro monete nazionali; dall’altro, paesi come l’Italia, con un debito pubblico molto elevato, vedevano nella moneta unica la possibilità di accedere al mercato del credito con tassi molto più bassi rispetto al passato, e così l’occasione per riuscire a mettere ordine nei conti pubblici. Se queste erano le prospettive con cui si guardava all’Eurozona, non si può dire che non si siano effettivamente realizzate, almeno fino al momento dell’esplosione della crisi. Ma, a un decennio di distanza, è però necessario riconoscere che non tutti i paesi europei si sono avvantaggiati allo stesso modo del nuovo quadro economico e che, anzi, l’ago della bilancia del potere reale ha iniziato a pendere sempre di più in una direzione. I motivi sono naturalmente molti, ma probabilmente alla base di questa situazione stanno sia le diverse strategie che le leadership nazionali hanno adottato per rispondere alla creazione della moneta unica, in una condizione di crescita molto bassa (in cui si trova l’Europa dalla fine degli anni Novanta), sia soprattutto il profilo economico di ciascun paese. Se le politiche adottate nei singoli paesi sono andati più o meno nella medesima direzione, gli effetti sono stati molto diversi, e soprattutto quei paesi che, come l’Italia, sono stati penalizzati dalla rigidità monetaria e fiscale, si sono dovuti rivolgere, per riconquistare competitività, al fattore lavoro, senza che questo abbia prodotto risultati positivi. Perché questa competizione ha avuto, sostanzialmente, un unico vincitore: «È stata promossa la flessibilità del lavoro e la moderazione salariale, ridotta la quota dei salari sul reddito totale e accresciuto il livello delle disuguaglianze. Questa corsa al ribasso è stata vinta dalla Germania, che è stata capace di ottenere importanti surplus commerciali a spese dei suoi paesi vicini e, in modo particolare, a spese dei suoi lavoratori, imponendo un basso costo del lavoro e delle prestazioni sociali e garantendosi un vantaggio commerciale sui suoi vicini, incapaci di trattare i propri lavoratori altrettanto duramente. Il surplus commerciale della Germania è ottenuto a discapito della crescita degli altri paesi. Deficit commerciali e di bilancio di alcuni paesi non sono altro che la controparte inevitabile dei surplus di altri… gli stati membri non sono stati in grado di definire una strategia coordinata» (ibi, p. 37).
Benché non tutte le misure proposte dai quattro economisti possano risultare pienamente convincenti, e nonostante anche alcuni aspetti del loro discorso possano apparire contestabili, è difficile negare che il quadro generale che descrivono non sia efficace e non colga la sostanza di una crisi che, naturalmente, non è soltanto europea, ma che investe soprattutto l’Europa e le istituzioni dell’Unione. Ciò che però è più sorprendente, a più di un anno dal momento in cui è apparso il Manifesto, è che – sebbene molte di quella certezze che erano contestate dagli «sgomenti» vengano ormai riconosciute come ‘false’ da parecchi osservatori e, persino, da diversi operatori politici – le misure adottate continuano a essere le stesse. In altre parole, benché molti ormai tendano a riconoscere che l’origine della malattia non sta, per esempio, nell’elevato costo del lavoro o nella crescita della spesa sociale, ma semmai proprio negli effetti innescati dall’eccesso di flessibilità sul mercato del lavoro, le linee d’azione continuano a essere indirizzate sulle medesime coordinate che hanno guidato le politiche europee negli vent’anni. Anzi, gli «economisti sgomenti» erano addirittura facili profeti nel momento in cui prevedevano che la crisi avrebbe offerto «alle èlite finanziarie e ai tecnocrati europei l’opportunità di mettere in opera ‘la strategia dello shock’, radicalizzando l’agenda neoliberista» (p. 42). E, in effetti, le misure adottate negli ultimi dodici mesi sono andate proprio nella direzione che i quattro economisti temevano, ossia verso un inasprimento del Patto di stabilità e crescita, come nel caso della richiesta di introdurre la clausola del pareggio di bilancio nelle carte costituzionali dei paesi membri, o nel caso della volontà della Commissione europea di giungere alla riduzione del debito al 60% del Pil. Ma queste misure – segnalano gli «sgomenti» - non hanno molte probabilità di successo, per cinque motivi principali: a) la riduzione della spesa compromette gli investimenti in settori cruciali per la crescita europea (per esempio la ricerca e l’istruzione); b) la riduzione della spesa pubblica destinata alle famiglie determinerà una riduzione della domanda effettiva, con un ulteriore aggravamento della crisi; c) i singoli Stati non hanno una reale intenzione di procedere verso un’effettiva armonizzazione fiscale, indispensabile per esercitare un controllo sui flussi finanziari (oltre che sui redditi elevati); d) per effetto delle politiche di bilancio restrittive, il gettito fiscale diminuirà, il rapporto fra il debito e il Pil aumenterà (o non diminuirà) e, così, i mercati non saranno affatto ‘rassicurati’; e) la ferrea disciplina di Maastricht potrebbe innescare, oltre a un indebolimento della coesione sociale, risposte nazionaliste nei singoli paesi, mettendo a rischio persino la medesima costruzione europea.

Queste previsioni vengono riprese e aggiornate in Changer d’economie! Nos propositions pour 2012 (in uscita per Les Liens qui libèrent), ma è piuttosto evidente che proprio i rischi segnalati un anno fa dagli «atterrés» sono destinati a segnare i nostri prossimi mesi (e si veda a questo proposito anche l’intervista ad Askenazy sui rischi delle politiche di austerità, in «culture&idees - le monde», 28 gennaio 2012). Perché, trascorsa la ‘luna di miele’ con il governo presieduto da Mario Monti, e sempre che il timore di essere soppiantati dai ‘tecnici’ non spinga i politici professionisti a ‘staccare la spina’, magari lasciando cadere nel fango la bandiera della ‘rivoluzione liberale’ per inalberare il vessillo (meno compromesso) del ‘popolo’ strangolato dai ‘poteri forti’, i nodi non potranno che tornare a incastrarsi fra i denti del pettine. Per effetto della recessione, il rapporto fra il debito e Pil non potrà che crescere, e non potrà che aumentare ulteriormente il bisogno dello Stato di ricorrere al prestito, e così la sua esposizione agli attacchi speculativi, alle convenzioni aleatorie degli investitori, alle valutazioni delle agenzie di rating. Tutto questo renderà sempre più chiaro anche al fatidico uomo della strada che l’Europa non si trova di fronte a una situazione di crisi temporanea o congiunturale, ma dinanzi a una guerra, che, ovviamente, non va combattuta con strumenti ordinari, ma con gli strumenti ‘straordinari’ che sono richiesti da un conflitto di portata globale. E compiendo quei sacrifici ‘straordinari’ che una guerra impone a ogni cittadino. Ciò che forse scopriremo troppo tardi è però che in questa guerra l’Europa combatte contro se stessa, e non contro un nemico esterno. E che ciò che il conflitto lascerà sul tappeto sarà proprio il cadavere della nostra democrazia. O almeno di quella forma politica che abbiamo chiamato per qualche decennio con questo antico nome, e che ha almeno parzialmente – e in modo imperfetto – realizzato l’ambizione di tenere insieme libertà politica, diritti sociali e benessere e economico.

Damiano Palano

 
 
Questo testo è ora raccolto in La dissolvenza democratica. Cronache nella crisi, un e-book che raccoglie alcuni posti apparsi sul maelstrom.

Il libro è disponibile anche in formato cartaceo.

lunedì 20 febbraio 2012

Un pacifista tra Machiavelli e Kant. Una recensione di "Teoria internazionale. Le Tre tradizioni", il classico di Martin Wight

di Damiano Palano

(da "Avvenire" di sabato 18 febbraio 2012)

Fino a qualche tempo fa il nome di Martin Wight (1913-1972) era quasi sconosciuto anche agli specialisti che si occupano di politica internazionale. Negli ultimi due decenni la riflessione di questo singolare studioso è entrata invece con forza nel dibattito politologico, e oggi Wight viene considerato come il pilastro della cosiddetta Scuola Inglese di Relazioni Internazionali.
Allievo di Herbert Butterfield a Oxford e largamente influenzato da Arnold J. Toynbee, Wight fu principalmente uno storico, peraltro spesso guardato con sospetto per le sue convinzioni religiose e per una prospettiva cristiana che si riflette chiaramente nei suoi lavori. Durante la sua carriera accademica, Wight tenne inoltre un profilo estremamente riservato, quasi schivo. E, per un perfezionismo quasi maniacale, si rifiutò persino di pubblicare i suoi corsi, che, apparsi postumi, sono oggi diventati autentici classici. La sua tardiva fortuna si spiega forse anche per questi motivi. Negli anni Cinquanta e Sessanta, le scienze sociali – e le stesse Relazioni Internazionali – erano d’altronde dominate dai canoni metodologici della ‘rivoluzione comportamentista’ e dall’idea che la politica potesse essere studiata con il metodo delle ‘scienze naturali’. Così, uno studioso come Wight – profondo e raffinato conoscitore della storia, del pensiero politico, del diritto internazionale – doveva apparire solo come un nostalgico della ‘preistoria’ degli studi politici. Ma, quando le ambizioni del positivismo più rozzo hanno lasciato il posto alla riscoperta della complessità della politica, era inevitabile che si tornasse agli insegnamenti di Wight.
A distanza di quarant’anni dalla morte, esce in Italia l’edizione, curata da Michele Chiaruzzi, di Teoria internazionale. Le tre tradizioni (Casa Editrice Il Ponte, pp. 493, euro 23.00), una delle opere principali di Wight. In questo testo – che riprende le lezioni tenute alla London School of Economics negli anni Cinquanta – Wight espone la tesi secondo cui, nella storia occidentale, ricorrono tre modi diversi di guardare alla politica internazionale. Innanzitutto, la visione realista (o machiavelliana), che tende a ragionare in termini di forza e che raffigura la dimensione internazionale come dominata da un’anarchia ineliminabile. In secondo luogo, la visione razionalista (o groziana), che ritiene che, accanto al conflitto, sia possibile anche la cooperazione. Infine, la visione rivoluzionista (kantiana), secondo cui esiste, almeno potenzialmente, una comunità superiore agli Stati e per cui, dunque, il sistema interstatale deve essere superato.
Anche se ognuna di queste tradizioni ha vissuto alterne fortune, i tre modi di vedere la politica internazionale sono sempre presenti, tanto che la teoria di Wight può essere considerata come una teoria ‘dialogica’, in cui – come nei classici dialoghi della filosofia greca – le differenti concezioni si confrontano costantemente l’una con l’altra. Uno dei meriti di Wight consiste però nell’aver rotto la dicotomia di realismo e idealismo e nell’aver recuperato l’importanza della tradizione razionalista: una tradizione le cui radici vanno ritrovate nell’antica Grecia, ma che venne rafforzata dalla dottrina cristiana del diritto naturale e da Tommaso d’Aquino, oltre che, in seguito, da Vitoria e Suarez. Proprio la visione razionalista consente infatti di trovare una mediazione fra opzioni opposte, che tendono a condurre al medesimo risultato della guerra.
Probabilmente la posizione personale di Wight si identificava con il razionalismo. D’altro canto, lo studioso britannico iniziò a interrogarsi sulle dimensioni della politica internazionale dopo un trauma che sconvolse profondamente le sue convinzioni giovanili. Sulla base delle sue posizioni cristiane, Wight aveva infatti adottato, negli anni della formazione, un pacifismo radicale che lo spinse anche all’obiezione di coscienza al servizio militare. La Seconda guerra mondiale mise in crisi il suo pacifismo, ma non indusse Wight a rinunciare alla dimensione morale nello studio della politica internazionale. E proprio per questo, nel corso della sua ricerca successiva, Wight non cessò mai di cercare una strada intermedia fra la tragica necessità del realismo e l’ambizione a un ordine da cui sia bandita la violenza.

Damiano Palano

sabato 18 febbraio 2012

Un pacifista tra Machiavelli e Kant. Una recensione della "Teoria internazionale" di Martin Wight oggi su "Avvenire"



Oggi su "Avvenire" appare Un pacifista tra Machiavelli e Kant, una recensione della Teoria internazionale di Martin Wight (Il Ponte, Bologna), un classico delle relazioni internazionale e il pilastro fondativo della cosiddetta Scuola Inglese.

mercoledì 15 febbraio 2012

Una democrazia ingovernabile? Consenso e conflitto in una società senza crescita

 

Questo testo riproduce gli stralci conclusivi dell’intervento «Democrazia e governabilità», presentato in occasione del Convegno «Democrazie a confronto», organizzato a Recoaro Terme nel settembre 2011 dall’Istituto Rezzara di Vicenza. Gli atti del Convegno, in via di pubblicazione, possono essere richiesti all’Istituto Rezzara.


di Damiano Palano

Nell’agosto del 2011, alcuni giorni dopo la rivolta scoppiata in alcuni quartieri di Londra, il premier britannico David Cameron annuncia alla stampa la volontà di introdurre misure capaci di porre sotto controllo i social network, rivelatisi uno strumento molto efficace nella diffusione dei disordini. La dichiarazione non può non destare qualche ironia, dal momento che, proprio qualche settimana prima, Facebook e Twitter erano stati celebrati come un’arma formidabile di democrazia in mano ai contestatori dei regimi autoritari nord-africani, in Tunisia, Egitto, Siria. Ma l’annuncio di Cameron è solo il riflesso di una condizione più generale in cui si trovano oggi i sistemi democratici, e che va ben al di là dei problemi di ordine pubblico e del controllo dei disordini urbani. Proprio negli stessi giorni in cui si consuma la breve rivolta di Tottenham, molte democrazie occidentali sono investite da una tempesta finanziaria, destinata ad abbattersi sul Vecchio continente e sull’architettura istituzionale e monetaria dell’Unione Europea. Ovviamente, le cause più profonde della turbolenza finanziaria affondano le radici nella situazione dell’economia mondiale, come, d’altro canto, l’esplosione delle periferie inglesi ha alla base una situazione di profondo disagio sociale. L’aspetto forse più significativo è però che, sia nel caso del riot urbano di Londra, sia nel caso della tempesta finanziaria del 2011, le autorità di governo si trovano alle prese con flussi che non riescono a controllare pienamente e che riescono a influenzare solo in minima parte. Si tratta cioè di eventi che, in modo diverso, mettono in luce le difficoltà che sperimentano tutte le democrazie contemporanee, e che tendono a fare emergere l’aumento radicale dei margini di ingovernabilità. Naturalmente, le rivolte urbane e le ondate di panico in borsa non sono fenomeni nuovi, come, d’altro canto, non sono fenomeni nuovi le catastrofi naturali, le epidemie virali, l’inquinamento ambientale, la criminalità organizzata, la violenza di matrice terroristica. Ciò che rende ognuna di queste minacce diversa rispetto al passato è però la dimensione globale, che contrae i tempi della comunicazione, che aumenta la quantità di flussi che attraversano il pianeta, e che, inoltre, viene ulteriormente moltiplicata dall’incremento demografico mondiale.
La situazione in cui viene a trovarsi l’Europa nell’agosto del 2011 è però significativa anche perché sembra offrire una rappresentazione della condizione in cui rischiano di trovarsi le democrazie occidentali nei prossimi decenni. La risposta all’ingovernabilità degli anni Settanta è passata attraverso trasformazioni radicali, che hanno investito le economie occidentali e i sistemi politici, e che hanno visto inoltre indebolirsi profondamente le strutture politiche deputate all’articolazione e all’aggregazione degli interessi. A dispetto di tutte queste modificazioni, i margini di ingovernabilità non sono affatto diminuiti, mentre appaiono ‘disseccate’ le strutture di rappresentanza di quella che Alfio Mastropaolo ha definito come la «democrazia organizzata» postbellica, col risultato che – come nel riot londinese – i sistemi politici odierni si trovano almeno in parte privi dei canali in grado di trasformare la protesta in domande e proposte. Al tempo stesso, appaiono nettamente – e stabilmente – diminuite le risorse cui i governi potranno attingere in futuro per rispondere ai bisogni della società e per garantire la sicurezza dei propri cittadini contro i rischi ambientali, sanitari e ovviamente politici. E, a ben vedere, è proprio a proposito delle risorse che si delinea la sfida probabilmente più radicale alla capacità di governare la società. Le democrazie di domani si profilano effettivamente come democrazie senza crescita, perché – come è stato osservato – «la crisi di oggi segnala un punto di svolta nella gestione dell’economia globale e, per quanto riguarda i sistemi socio-economici europei, apre la prospettiva di un governo di società senza più crescita misurata sui vecchi criteri» (G.E. Rusconi, Governare senza crescita, in «La Stampa», 19 agosto 2011, p. 1 e p. 31). Ciò non comporta ovviamente che la democrazia sia destinata a essere travolta, perché è ancora possibile pensare a una sua rivitalizzazione, fondata anche sull’affermazione di pratiche deliberative e su un nuovo ruolo per la partecipazione. Ma non significa neppure che la sfida di una società senza crescita non metta profondamente in discussione il profilo delle democrazie che abbiamo conosciuto, e soprattutto la capacità di tenere fra loro stabilmente in equilibrio partecipazione e ordine politico, libertà e sicurezza, equità e benessere.

Damiano Palano


venerdì 10 febbraio 2012

Il viaggio di Hermes. A proposito di "Felici e sfruttati" di Carlo Formenti






di Damiano Palano

Le ceneri del Cyberpunk


Nella storia della fantascienza si affiancano a lungo due grandi filoni, che, pur intrecciandosi, accostano il futuro da prospettive sostanzialmente differenti. Nel primo – il cui esempio paradigmatico rimane probabilmente la Guerra dei Mondi di H.G. Wells – lo scenario è offerto dal mondo contemporaneo, in cui un evento dirompente come un’invasione aliena sconvolge radicalmente tutto ciò che, fino a quel momento, è stato considerato normale e inattaccabile. Nel secondo filone, le cui prime anticipazioni possono essere rinvenute in alcuni viaggi di Jules Verne, la fantasia degli scrittori si proietta invece nel futuro per meravigliare, per immaginare un mondo trasformato da invenzioni strabilianti, per raccontare la conquista della Luna o di Marte, o persino per costruire la nuova epica dei pionieri dello spazio profondo, in lotta contro civiltà extraterrestri. È per molti versi in questa seconda tradizione che si collocano, fra gli anni Venti e Trenta del Novecento, le grandi ‘distopie’ del XX secolo, anche se, in questo caso, l’attenzione non è rivolta tanto – o soltanto – alla tecnologia e alle potenzialità delle nuove invenzioni scientifiche, quanto ai loro utilizzi politici, invariabilmente rappresentati in termini negativi. Senza eccezioni, le grandi ‘distopie’ novecentesche – dalla Macchina del tempo dello stesso Wells, a Il tallone di ferro di Jack London, ai classici Noi di Evgenij Zamjatin, Il Mondo nuovo di Aldous Huxley, 1984 di George Orwell, Fahrenheit 451 di Ray Bradbury – ritraggono i contorni di un regime dispotico, totalitario, capace di garantire il dominio di un’esigua minoranza su un’enorme massa di diseredati. Ad accomunare testi tanto diversi, è soprattutto l’idea di una connessione quasi strutturale, originaria, fra il potere assoluto del regime e il suo profilo tecnologico. In altre parole, in tutte le grandi distopie dei primi decenni del Novecento, la tecnologia costituisce uno strumento saldamente in mano al potere, che lo utilizza per organizzare la vita dell’intera società, per assicurare una disciplina ferrea e per impedire ogni più piccolo tentativo di sovversione da parte di sudditi ridotti ad automi privi di qualsiasi spirito critico. In questo senso, la fusione di ‘potere’ e ‘tecnologia’ non solo è totale e senza alternative, ma disegna anche un futuro cupo, in cui i margini di libertà sono destinati a restringersi.
Questa componente viene invece notevolmente ridimensionata dalla grande stagione della science-fiction americana. Quando, a partire dagli anni Quaranta, la fantascienza inizia a diventare un genere della letteratura popolare, e quando cominciano a essere pubblicate le prime riviste specializzate, la dimensione ‘distopica’ viene infatti in gran parte accantonata, anche se non scompare del tutto (e il libro di Bradbury è sufficiente a testimoniarlo). Come il cinema di genere, anche la science-fiction è destinata a proiettare il mito della frontiera verso lo spazio, o a riflettere il clima ideologico-politico del momento, come avviene per esempio in molti romanzi di Robert Heinlein. Ben presto, nella sua stagione più fortunata, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, il genere viene però a riflettere – con una straordinaria pluralità di toni, di sensibilità e prospettive – le grandi inquietudini della società opulenta. Proprio in questa stagione, il filone ‘distopico’ conosce una nuova fioritura, spesso fortemente influenzata dalla vena ‘sociologica’ del periodo, e il futuro viene nuovamente raffigurato come dominato da potenti oligarchie, che questa volta non hanno il volto dei vecchi regimi totalitari, ma quello di grandi corporation, capaci di controllare le masse anestetizzandole e addomesticandole con un’abile propaganda consumista. Molto probabilmente, l’apice di questo filone viene raggiunto con la New Wave degli anni Sessanta, o da alcuni cupi romanzi di Philip Dick, in cui la tecnologia – una tecnologia in grado persino di rimodellare la natura umana – diventa la base su cui si reggono terrificanti regimi plutocratici (ed è sufficiente pensare a celebri romanzi come La penultima verità o I simulacri). Proprio a partire da alcune pagine di Dick – e forse dalla trasposizione cinematografica di Blade Runner – si  iniziano però a intravedere i segnali di quella modificazione, nella visione del rapporto fra tecnologia e potere, che sarebbe stata sviluppata dal movimento cyberpunk al principio degli anni Ottanta. In un romanzo come Neuromante di William Gisbon, non si trovano infatti i contorni di una nuova utopia tecnologica, e non mancano neppure gli echi dell’immaginario catastrofico degli anni Settanta, ma trapela la convinzione che la tecnologia possa essere impugnata anche come strumento di difesa, di resistenza, contro il dominio pervasivo delle corporation. Come scrive Bruce Sterling, presentando Mirrorshades, una raccolta di racconti di autori come Gibson, Tom Maddox, Pat Cadigan, Greg Bear, l’etichetta cyberpunk coglie «un elemento centrale nel lavoro di tutti questi scrittori, un nuovo tipo di integrazione, la sovrapposizione di due mondi che fino ad allora erano rimasti separati: il campo dell’high tech, e il moderno underground della cultura pop» (B. Sterling, Prefazione, in Mirroshades, Mondadori, Milano, 2003, p. 17; I ed. 1983). Il cyberpunk non è dunque soltanto un movimento letterario, ma, piuttosto, rappresenta il riflesso di una trasformazione più generale, evidente in tutti i campi, che altera in profondità la divaricazione classica fra cultura e tecnologia. «Tra le scienze e le attività umanistiche» - scrive ancora Sterling - «c’è sempre stato un abisso: tra la cultura letteraria, il mondo delle arti e della politica, da un lato, e la cultura scientifica, il mondo dell’ingegneria e dell’industria dall’altro. Ma oggi questo abisso tende a scomparire. La cultura tecnica è diventata incontrollabile. I progressi delle scienze sono così radicali, così sconvolgenti, così inquietanti, così rivoluzionari, che è diventato impossibile contenerli entro limiti prefissati. Stanno influenzando la cultura nel suo insieme, ci pervadono, sono dappertutto. E la struttura del potere, le istituzioni tradizionali, hanno perso il controllo sul ritmo di questo cambiamento. All’improvviso si è resa riconoscibile una nuova alleanza, un’integrazione fra la tecnologia e la controcultura degli anni Ottanta. Una non santa alleanza fra il mondo della tecnica e quello del dissenso organizzato, il mondo undergruound della cultura pop, della fluidità visionaria e dell’anarchia da strada» (ibi, pp. 17-18). Nel cyberpunk confluiscono certo le reminiscenze della mitologia dei vecchi pionieri, impegnati questa volta nella conquista di praterie immateriali, ma un sostrato forte a questo immaginario è fornito dall’eredità delle ‘contro-culture’ degli anni Sessanta e Settanta, e soprattutto da quella tensione libertaria che conduce alcuni reduci di quelle esperienze a rivolgere la tecnologia proprio contro le regole del ‘sistema’. In qualche misura, l’humus da cui emerge il cyberpunk è lo stesso in cui germoglia l’estetica che avrebbe fatto la fortuna di Steve Jobes. Perché, alla base di questo immaginario, sta la convinzione – e forse l’illusione – che la tecnologia non sia soltanto lo strumento nelle mani di un potere totalitario capace di far muovere all’unisono milioni di persone, come nelle vecchie distopie ‘fordiste’, ma anche – potenzialmente – uno strumento di libertà, di emancipazione individuale, di affrancamento dalla costrizione della fabbrica. Saldandosi con le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, l’impeto delle vecchie contro-culture trova nuovi margini di sviluppo. Come scrive Sterling, «la febbre della tecnologia è sfuggita al controllo e dilaga per le strade» (ibi, p. 18), e il cyberpunk restituisce fedelmente i tratti di questa rivoluzione. 

Anche in Italia l’immaginario cyberpunk trova ben presto cultori appassionati proprio in alcuni eredi delle esperienze contro-culturali, che vedono nelle prime Bbs un veicolo per una comunicazione orizzontale e per forme di informazione capaci di squarciare la coltre ideologica dell’«industria culturale». Una rivista come «Decoder» e la casa editrice Shake divetnano rapidamente le principali portabandiera di un movimento non soltanto letterario ma anche politico, che, senza dubbio, interpreta alcune delle inquietudini e delle utopie di una fase in cui l’informatica si avvia a diventare un fenomeno di massa. In modo piuttosto emblematico, il nuovo immaginario cyberpunk si trova fissato nelle pagine di Nell’anno della Signora, un romanzo di Carlo Formenti ambientato, per gran parte, nella Milano della fine del XXVIII secolo dopo Cristo (Nell’anno della Signora, Shake, Milano, 1998). Per molti versi, in quel romanzo Formenti, in sostanziale coerenza con lo spirito del cyberpunk, rovescia il nesso fra tecnologia e potere che alimentava le grandi distopie degli anni Venti e Trenta, perché il regime dispotico che immagina si basava sulla distruzione della tecnologia e sulla repressione di qualsiasi tentativo di ripristinare le conoscenze e i manufatti del passato. Formenti cala dunque la propria storia in un nuovo Medioevo, innescato nel 2025 da una catastrofica epidemia, cui segue l’edificazione di una società oscurantista. Nella trama allestita da Formenti, infatti, una setta di fedeli adora il corpo di una donna ibernata, che però, una volta risvegliata da un gruppo di ribelli, consegna proprio a questi ultimi la chiave di accesso ai segreti della tecnica del XXI secolo. In realtà, quasi nessuno di quei misteri può essere compreso dai ribelli del 2800, ma le «armi degli antichi» - in piena fedeltà all’impostazione cyberpunk – servono comunque per sferrare un attacco letale alle truppe del regime ‘tecnofobo’.
Uscito dopo una raccolta di racconti (Nove angeli neri, Il Saggiatore, Milano, 1996), Nell’anno della signora è il primo romanzo di Formenti, un appassionato studioso delle mutazioni culturali e sociali connesse alla rivoluzione informatica. Se l’incursione nel terreno della science fiction è destinata a rimanere una parentesi, l’indagine sulle trasformazioni prosegue invece senza battute d’arresto, e nel primo decennio del XXI secolo Formenti pubblica infatti un’importante trilogia, inaugurata da Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet (Cortina, Milano, 2000), seguita da Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy (Einaudi, Torino, 2002) e conclusa da Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Cortina, Milano, 2008). Benché testimonino la continuità degli interessi di Formenti, le tre tappe di quella trilogia scandiscono anche il percorso di una progressiva disillusione, in cui delle utopie cyberpunk rimane solo lo sguardo critico verso la società contemporanea. Ora a quella trilogia fa seguito un nuovo volume, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro (Egea, Milano, 2011), che per molti versi può essere considerato anche come un bilancio – per quanto provvisorio – di un’attività di ricerca cominciata più di trent’anni fa. Si tratta, evidentemente, di un bilancio in larga parte anche autocritico, e soprattutto di un bilancio da cui traspare un dichiarato pessimismo sulla realtà della rivoluzione digitale e sulle sue ricadute sulla vita individuale e sulle condizioni sociali. Il libro di Formenti è, d’altronde, anche un libro fortemente polemico, contrassegnato – come scrive l’autore stesso – da «uno stile sarcastico, diretto, assertivo più che argomentativo, al limite del pamphlet, tipico della polemica ideologica» (ibi, p. IX). D’altra parte, Formenti rivendica la stessa dimensione ‘ideologica’ del suo lavoro, anche se non intende certo l’ideologia nei termini di una rappresentazione mistificata del reale. «Questo è un libro esplicitamente e orgogliosamente ideologico, nel senso che è un libro che osserva la realtà dal punto di vista della guerra fra idee, del conflitto – altro termine tabù – fra parole, concetti e categorie che, da un lato, rispecchiano gli interessi materiali di certi attori sociali – una volta si chiamava ‘lotta di classe’ -, dall’altro, sono gli strumenti della battaglia per l’egemonia culturale che si svolge fra tali attori» (ibi, p. IX). Ma è lo stesso Formenti che chiarisce come il nuovo capitolo della sua indagine sulla rete non si limiti ad aggiornare la riflessione su un mondo d’altronde in costante mutamento. Il libro – scrive infatti - «segna un’ulteriore evoluzione in senso pessimistico del giudizio sul potenziale ‘rivoluzionario’ della rete» (ibi, p. XI), e proprio una simile evoluzione conduce l’autore ad abbandonare molte delle speranze riposte in passato nel possibile utilizzo in senso democratico (o ‘postdemocratico’) delle nuove tecnologie. Non si tratta, però, di un vero e proprio pentimento, seguito alla guarigione da una sorta di sfrenata passione per le utopie cyberpunk. Piuttosto, Formenti ritiene che le potenzialità per una storia differente ci fossero effettivamente, ma che la direzione imboccata a partire dagli anni Novanta sia stata completamente diversa da quella auspicata da almeno una parte degli attori che hanno dato vita all’avventura della rivoluzione digitale. Da questo punto di vista, anzi, Formenti ritiene del tutto «sbagliato dare per scontato che quanto è successo nell’ultimo decennio sia l’esito necessario, inevitabile della prima fase della storia dell’economia e della cultura di Internet», perché «la necessità storica è spesso il frutto di costruzioni a posteriori» e perché non è davvero detto che «le cose non sarebbero potute andare diversamente» (ibi, p. XI). Dinanzi al nuovo scenario delineatosi nel primo decennio del nuovo millennio, di fronte alle conseguenze della crisi economica globale, attardarsi ancora a rinfocolare o rimpiangere i vecchi miti sarebbe però del tutto colpevole, prima che ancora ingenuo. E pertanto, come scrive, volgendosi polemicamente contro una lunga lista di bersagli: «non rinnego le speranze rivoluzionarie nutrite in passato, mentre a chi ancora le accarezza rimprovero di chiudere gli occhi di fronte all’ineludibile realtà dei fatti» (ibidem).



Cronologia di un’autocritica

Sebbene Formenti tenda a sottolineare energicamente gli elementi della propria auto-critica, chiunque conosca le sue indagini sulle trasformazioni tecnologiche deve in fondo riconoscere come i contenuti della ‘revisione’ non siano poi tanto marcati da autorizzare l’idea di una vera e propria inversione teorica. A dispetto dei tre decenni trascorsi dai primi lavori di Formenti, è infatti possibile rinvenire nel suo percorso non solo un interesse costante per il nesso fra trasformazioni tecnologiche, conflitti sociali e immaginari collettivi, ma anche la continuità di una serie di problematiche di fondo che orientano la ricerca, cui vengono fornite risposte almeno parzialmente diverse nelle varie stagioni.
La tappa di avvio della riflessione di Formenti è costituita da un confronto critico – seppure non ostile – con la tradizione teorica dell’operaismo, e in particolare con quel filone ‘post-operaista’ che, a partire dalla metà degli anni Settanta, inizia a considerare la crisi economica e la ristrutturazione delle grandi fabbriche come il segnale di un radicale cambio di stagione, destinato a sancire il passaggio del testimone da un vecchio a un nuovo soggetto conflittuale: secondo la variante più schematica (ma più popolare) di questa ipotesi, il vecchio ‘operaio massa’, prodotto del ciclo fordista, avrebbe lasciato il posto a un nuovo ‘soggetto centrale’, un ‘operaio sociale’, scaturito invece dalla crescente ‘socializzazione’ della produzione, ossia dall’estensione dei reticoli produttivi al di fuori dei tradizionali luoghi di lavoro. Naturalmente, quell’ipotesi conobbe, pur nel corso di un periodo di tempo limitato, una serie di declinazioni piuttosto ampie, e l’eco di quello schema teorico può essere forse rinvenuto oggi nelle pagine di opere come Empire, Multitude e Commonwealth, oltre che nel successo planetario delle ipotesi di Michael Hardt e Antonio Negri. Negli anni Settanta, quell’ipotesi presuppone però un corollario importante, che talvolta si presta anche a essere dilatato in termini spiccatamente ‘deterministici’. In sostanza, secondo un’idea elaborata da Sergio Bologna a proposito del passaggio dall’‘operaio professionale’ all’‘operaio massa’, nella Germania dei primi decenni del Novecento, si tendeva a distinguere fra una ‘composizione tecnica’ della forza lavoro e una ‘composizione politica’ della classe operaia, ma questa distinzione non si riteneva fosse valida solo dal punto di vista analitico: in una sorta di rinnovata teoria ‘stadiologica’, la ‘composizione politica’ si prestava a essere letta come una conseguenza – più o meno determinata, seppur non ‘automatica’ – di uno specifico assetto della ‘composizione tecnica’. Naturalmente, neppure Bologna – che pure aveva contribuito sia a formulare la distinzione, sia a coniare l’efficace formula ‘operaio massa’ – sposò mai una simile visione ‘stadiologica’, e d’altronde si può dire che il lavoro condotto negli anni Settanta dalla rivista «Primo maggio» fosse diretto proprio a un ripensamento critico di quel determinismo, oltre che a una ‘relativizzazione’ della stessa centralità dell’‘operaio massa’. Nelle riflessioni più schematiche, venate spesso da una visibile ‘ansia politica’ di giungere alla sintesi di una realtà magmatica e frammentata, il passaggio dalla composizione tecnica a quella politica veniva inteso invece come una sorta di percorso obbligato: così, come la grande fabbrica fordista, negli Stati Uniti, in Germania, in Italia, aveva prodotto l’‘operaio massa’, così la terziarizzazione, la ristrutturazione e la fabbrica diffusa avrebbero innescato la genesi del nuovo ‘soggetto centrale’, capace di generalizzare i conflitti, più ancora di quanto non avessero fatto gli ‘operai produttivi’ di Mirafiori.
Per Formenti, alla fine degli anni Settanta, questa ipotesi non costituisce solo un bersaglio politico-teorico da colpire, ma è piuttosto un’ipotesi da discutere e criticare con estrema attenzione, considerando la realtà della trasformazione economico-sociale in atto. In un fascicolo della rivista «aut aut» dedicato nel 1979 al celebre Lavoro e capitale monopolistico  di Harry Braverman, Formenti esamina per esempio la classica dicotomia marxiana di ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’ per mostrare come le trasformazioni del tardo-capitalismo la rendano sempre più inutilizzabile, sia sotto il profilo analitico, sia sotto il profilo politico. Mentre Marx considerava le funzioni produttive e quelle improduttive come momenti di cicli distinti, le trasformazioni successive – argomenta Formenti – hanno in realtà determinato un «intreccio inestricabile delle funzioni, sia al livello dei vari settori che della singola impresa» (C. Formenti, Modo di produzione e struttura di classe, in «aut aut», n. 172, 1979, p. 57). Pertanto, dinanzi alla realtà di una «forza lavoro socialmente combinata», ha poco senso continuare a chiedersi dove finisca il lavoro strettamente ‘produttivo’ e dove incominci quello ‘improduttivo’. E, anzi, come osserva, è possibile riconoscere in molti dei nuovi lavori un riflesso dell’estensione del processo di valorizzazione fin dentro l’area della circolazione: «È possibile dimostrare che i processi lavorativi che sono nati dalla oggettivazione di nuove funzioni del capitale, come il marketing, la pubblicità, la ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, la produzione di modelli gestionali per l’impresa e più in generale di tutto il software e la modellistica utilizzati dagli staff della moderna impresa multi divisionale, sono in una stretta relazione di isomorfismo con le attività cui si riferisce Marx parlando di prolungamento del processo di valorizzazione nel processo di circolazione del capitale» (ibi, p. 59). Benché il riferimento a Marx possa infastidire qualche lettore contemporaneo, e possa oggi essere considerato come un retaggio della furia ideologica degli anni Settanta, è difficile negare come a Formenti – anche poggiando sulle pagine dei Grundrisse – siano già chiare in questa fase le tendenze in atto, prima ancora che inizi la stagione aurea del Personal Computer, e tantomeno che prenda avvio la rivoluzione di Internet. Ma – rilette trentatré anni dopo – non può non apparire addirittura sorprendente la lucidità con cui Formenti coglie le conseguenze innescate dall’introduzione dell’informatica nel processo produttivo e, in particolare, nella pubblica amministrazione, con la finalità di un avvicinamento fra i bisogni dei cittadini e il livello di governo. «Per mettere in opera questa contabilità dei bisogni sociali», scrive infatti Formenti, «si propone anche qui il modello partecipativo dell’informatica distribuita: uno scambio di informazioni fra sistemi informativi decentrati ed una utenza ‘intelligente’ ed attiva, che contratta con l’amministrazione i propri bisogni e gli indicatori di produttività dei servizi che dovrebbero soddisfarli. Ma cos’è tutto questo se non una nuova forma di scambio fra capitale e lavoro; offrendo informazione, il potere offre in realtà codici di comportamento che si affiancano alle merci salario e ai servizi sociali come mezzi di definizione e di misura dei bisogni sociali; chiedendo informazione, il potere si appropria del sapere sociale diffuso sul territorio così come si appropria della forza produttiva del lavoro sociale in fabbrica. Il fatto che oggetto dell’appropriazione sia qui il sapere sociale contenuto nel lavoro riproduttivo, segna un salto qualitativo di portata immensa del modo di produzione capitalistico; l’estensione del controllo informatizzato dalla fabbrica a tutto il corpo sociale, coincide col tentativo capitalistico di organizzare direttamente l’intera giornata lavorativa sociale in funzione del processo di valorizzazione» (ibi, pp. 66-67). A dispetto di un lessico che, almeno in questi termini, appare lontano da quello dei libri più recenti di Formenti, c’è già qui – ed è quasi sbalorditivo – un’ipotesi di lettura che torna anche oggi, e che d’altronde si presta con particolare efficacia a interpretare persino fenomeni recentissimi come l’utilizzo per fini commerciali dei social network, il ‘lavoro gratuito’ di blogger e navigatori della rete, o la stessa ‘appropriazione’ del sapere prodotto dalla sperimentazione dei software.
Benché l’analisi di Formenti non risulti divergente, almeno sotto questo profilo, rispetto all’analisi del post-operaismo (e, per esempio, rispetto alle ipotesi sviluppate da Christian Marazzi), dal punto di vista delle conseguenze ‘politiche’ il discorso imbocca invece una direzione diversa. Nella Fine del valore d’uso, infatti, Formenti mette in luce l’ambiguità dell’operazione compiuta dal post-operaismo (e in particolare da un’opera come Marx oltre Marx, dello stesso Negri), che, per un verso, critica la vecchia distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, mentre, dall’altro, recupera proprio la centralità politica di un lavoro produttivo i cui confini vengono dilatati fino all’intero spettro sociale, senza prendere atto della dissoluzione del concetto stesso di ‘lavoro produttivo’: «è qui che scatta l’ipostasi del soggetto rivoluzionario, è qui, soprattutto, che Negri – con lui tutta l’ideologia tardo-operaista – non riesce ad andare veramente ‘oltre Marx’, e a Marx ritorna, assumendo ancora e nuovamente il processo di costituzione del soggetto rivoluzionario come prodotto della missione civilizzatrice del capitale, del più elevato livello di sviluppo delle forze produttive» (C. Formenti, La fine del valore. Riproduzione, informazione, controllo, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 56). E la conseguenza, in termini politici, non può che essere una reintroduzione, in forma solo parzialmente mutata, della subordinazione dei diversi momenti soggettivi a una funzione di avanguardia determinata dal carattere ‘produttivo’ del lavoro, perché, «se ‘oltre Marx’ si cerca e si trova solo Marx, dev’essere liquidata ogni apertura ai discorsi che si occupano della pluralità concreta dei soggetti antagonistici» (ibidem). In altre parole, sebbene Formenti concordi con la lettura post-operaista della ‘sussunzione’ della circolazione dentro un circuito produttivo sempre più esteso a livello sociale, ritiene che una risposta politica non possa che prendere commiato definitivamente da ogni ipotesi di ‘nuova’ centralità, su cui innestare un ruolo di direzione della trasformazione. All’opposto, si tratta – ai suoi occhi – di riconoscere l’irriducibile parzialità delle posizioni soggettive, e dunque della pluralità dei punti di emergenza delle parzialità.
Forse, nel passaggio fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, le implicazioni di questa operazione teorica non sono ancora interamente chiare a Formenti, o, quantomeno, non assumono ancora il rilievo che presentano due testi successivi, come Immagini del vuoto e, soprattutto, Prometeo e Hermes, in cui si rivela interamente l’opzione di un definitivo abbandono di ogni prospettiva escatologica. Nel clima plumbeo degli anni Ottanta, Formenti, metabolizzando il ripiegamento del dibattito intellettuale, ma anche registrando i nuovi accenti del movimento ecologista, non rinuncia a ragionare sulle trasformazioni del capitalismo. In questo caso, però, la riflessione si sposta decisamente sulla critica indirizzata a ogni fascinazione del conflitto, e dunque sul tentativo di pensare l’affermazione del conflitto in termini che rifiutino ogni opzione di contrapposizione: «bisogna sfuggire alla fascinazione dell’antagonismo» - scrive per esempio, anticipando peraltro un tema simile a quello che, di lì a poco, Paolo Virno avrebbe sviluppato ricorrendo all’immagine classica dell’‘esodo’ – «impedire che i recinti del partito e dell’esercito racchiudano le dinamiche del movimento, spingendole inesorabilmente verso lo stato finale dell’istituzione sacrificale» (C. Formenti, Prometeo e Hermes, Liguori, Napoli, p. 133). Il riferimento esplicito è – ovviamente – al tragico epilogo italiano degli anni Settanta, perché, nonostante Formenti riconosca il valore delle intuizioni di quel periodo (e, in particolare, le intuizioni proprio del post-operaismo), non ne nasconde tutti i limiti sul piano dell’immaginazione. «Serviva un’enorme immaginazione sociale per continuare a leggere la trama di queste traiettorie sotto la superficie della comunicazione omologata, per riconoscere l’autonomia dei soggetti e la loro capacità di parassitare i processi di mercificazione, smaterializzazione e informatizzazione messi in atto dalla ristrutturazione capitalistica. Servivano una grande immaginazione e una grande umiltà politiche per rispondere alla domanda che veniva dai nuovi soggetti: tradurre l’autonomia sociale in forme conflittuali alternative all’opposizione amico-nemico, conservare ed ampliare la nuova complessità del conflitto sociale, evitandone la neutralizzazione da parte dei meccanismi di guerra» (ibi, p. 140). La realtà era però andata in una direzione diversa, la logica della dialettica, dell’antagonismo, della contrapposizione bipolare, aveva avuto la meglio, dissipando un patrimonio di intuizioni e lasciando senza risposta la domanda sulla forma in cui pensare la politica dei nuovi movimenti. La figura di Hermes, contrapposta a quella di Prometeo, disarmata dinanzi a un progresso tecnico fondato sulla macchina e (ancor più) sul codice, diviene così il simbolo di «un sapere furtivo e astuto, pronto ad arraffare le occasioni di un mondo in cui crescono disordine e casualità»: «Sapere di un soggetto che non pretende più di conoscere né di dominare la realtà, che non si definisce in opposizione a un’oggettualità inanimata e inerte. Identità che si pone come scarto, piccola differenza che abita le pieghe di una complessità indeterminata; sapere del locale, dell’aleatorio, del discontinuo, sempre in bilico sull’abisso del senza-senso, ma proprio per questo capace di generare nuovi universi di senso, di convertire il disordine in ordine, l’improbabile in probabile, sfruttando piccole crepe nell’uniformità del vuoto» (ibi, p. 159).
Prometeo e Hermes e Immagini del vuoto rappresentano per molti versi una tappa intermedia nel percorso di Formenti, perché, per un verso, si richiamano (anche criticamente) alla precedente riflessione sul ruolo delle tecnologie e dell’informatica nella trasformazione capitalistica, mentre, per un altro, tendono a imboccare una nuova direzione, proiettandosi prevalentemente verso l’immaginario e le forme culturali della transizione in atto. Nel successivo Piccole apocalissi. Tracce della divinità nell’ateismo contemporaneo (Cortina, Milano, 1991), la polemica contro il post-operaismo si diluisce in un discorso più complesso, il cui oggetto principale è invece l’immaginario delle tecno-scienze. In dissenso con le componenti del movimento ecologista più critiche nei confronti delle nuove tecnologie, Formenti esamina piuttosto, in parallelo, il pensiero ecologista e l’immaginario delle tecno-scienze, per portarne alla luce gli elementi comuni. Ancora una volta, Formenti ritorna a Hermes, e – con una scelta che assegna alla metafora il potere dell’evocazione, se non quello dell’esplicitazione – proprio nella figura del messaggero mitologico scorge il terreno per una congiunzione fra i nuovi movimenti e le potenzialità della tecnica: «L’angelo eterno ed ubiquo è un essere invisibile, minuscolo, privo di ogni potere di influire sul libero gioco della materia e del caso. Eppure la sua potenza è smisurata, perché egli è colui che custodisce il passato e che coltiva il futuro, è colui che anticipa le miracolose epifanie del virtuale, che sa, un attimo prima che ciò si realizzi, che una possibilità sta per trasformarsi in atto. Un tempo l’angelo aveva un nome: i greci lo chiamavano Hermes. Oggi noi non sappiamo più come chiamarlo. Ma forse è meglio così: colui che è senza nome e senza volto può assumere tutti i volti e tutti i nomi della divinità. È questo è l’aspetto più adeguato per un angelo che debba convivere con la modernità. L’angelo ha indossato la maschera del viaggiatore, di un’entità vaga e inafferrabile, che quasi scompare per risolversi nel suo eterno movimento. Così travestito, ambiguo e proteiforme, egli attraversa il nostro tempo continuando a osservare e ad aspettare. L’angelo aspetta che si realizzi il miracolo più grande: aspetta che gli uomini – o le forme di vita che prenderanno il loro posto – riescano nuovamente ad avvertire il soffio impalpabile della sua presenza, e che tornino a trovare nomi e immagini per la divinità che non cessa di chiamarli da un futuro imprecisato» (ibi, pp. 192-193).
L’interesse per l’immaginario tecno-scientifico, per le forme di religiosità e lo gnosticismo, accompagna Formenti anche nelle sue esplorazioni nel territorio della science fiction, ma, per molti versi, viene sensibilmente ridimensionato nella successiva stagione di ricerca, che si apre proprio sulla soglia del XXI secolo e che risulta concentrata – in modo più esplicito che in passato – proprio sugli immaginari delle nuove tecnologie. Con Incantati dalla rete, il primo tassello della sua importante trilogia, Formenti si confronta infatti proprio con gli immaginari della rete: sia con gli entusiasmi che celebrano Internet come il territorio in cui è possibile trovare un nuovo continente di libertà e uguaglianza, sia con le visioni che invece demonizzano la rivoluzione tecnologica come un semplice strumento di estensione del dominio. In questa nuova prospettiva, l’ipotesi di alleanza formulata in Piccole apocalissi risulta un’approssimazione ancora insufficiente, ma Formenti non la abbandona totalmente. Perché, in effetti, ritiene che effettivamente Internet abbia addirittura dilatato «il potenziale escatologico (e di riflesso il ruolo apocalittico) che le nuove tecnologie svolgono nell’immaginario collettivo della tarda modernità» (C. Formenti, Incantati dalla rete. Immaginari, utopie e conflitti nell’epoca di Internet, Cortina, Milano, 2000, p. 14). L’ambiguità che Formenti ritrova nell’immaginario della rivoluzione digitale ha anche un risvolto politico, nel senso che l’ambiguità costitutiva delle tecno-scienze, così come l’ambiguità delle potenzialità offerte dalla new economy, sembra indicare il terreno per una sorta di alleanza, o quantomeno di un utilizzo delle nuove tecnologie da parte dei soggetti che ne sono investiti direttamente. Per esempio, i lavoratori della conoscenza, come scrive Formenti, «possono associare nuovi modelli produttivi fondati sulla comunicazione al rischio di subire processi di ‘proletarizzazione’ e, al tempo stesso, a un’effettiva chance di allargamento dei propri margini di creatività e autonomia», mentre «la transizione al postfordismo […] è interpretabile tanto in termini di ristrutturazione selvaggia quanto in termini di ‘liberismo’ dal basso, di lotta per emancipare il lavoro dalla disciplina di fabbrica» (ibi, p. 15). L’ambiguità appare allora a Formenti non come un ostacolo da superare, bensì come una condizione in cui si determinano una serie di possibilità contraddittorie. Sviluppando in modo coerente il percorso imboccato negli anni Settanta, riconosce dunque le nuove tecnologie come il terreno in cui maturano – o possono maturare – relazioni conflittuali, ma rifiuta sia uno schema interpretativo pessimista, sia uno schema determinista. In altre parole, come gli scrittori cyberpunk, individua nella trasformazione della vita e dell’immaginario prodotta da Internet potenzialità ambivalenti, oltre che persino l’ipotesi di una sorta di riappropriazione della tecnologia ‘dal basso’. E, su queste basi, formula la tesi con cui forse si avvicina di più al versante degli ‘ottimisti’, che diventeranno poi un bersaglio polemico dei successivi lavori di Formenti. A proposito della ‘sussunzione’ di ogni differenza nel processo produttivo, scrive per esempio: «ciò significa che anche le differenze entrano in rete con tutto il loro potenziale idiosincrasico. Nessun significato, nemmeno quello del comando capitalistico, appare perciò garantito a priori. Non esiste la rete, ma esistono le reti, e se il discorso sulla complessità può servire da paravento ideologico della new economy, la complessità reale appare irriducibile a ogni proiezione ideologica. Una volta messa in moto, la macchina del desiderio diviene assai difficile da governare. E non solo da parte del capitale: i ‘movimenti’ del futuro ignoreranno le chiacchiere sul nuovo soggetto; se mai troveranno un’‘ideologia’ comune, questa non sarà troppo diversa da una qualche forma di sincretismo antagonista; e se mai si doteranno di strutture organizzate, queste non saranno troppo diverse da federazioni di differenze da costruire di volta in volta, su obiettivi contingenti» (ibi, pp. 16-17).

Sebbene in questo libro Formenti sembri accostarsi alle posizioni degli ‘entusiasti’ della rete, la sua posizione in realtà non si spinge mai verso un’ingenua celebrazione delle nuove tecnologie. Ma, senza dubbio, la sua lettura cyberpunk delle potenzialità della rete tende ad alimentare sia la critica delle visioni neo-marxiste della trasformazione capitalistica, sia l’abbandono di qualsiasi immagine del conflitto vagamente imparentata con la mitologia novecentesca. Sotto questo profilo, in fondo, la posizione non cambia rispetto a Prometeo e Hermes, ma in Incantati dalla rete il discorso si volge esplicitamente contro le letture del ‘postfordismo’ influenzate dal neo-marxismo (più che strettamente neo-marxiste). Sebbene, per esempio, Formenti rintracci elementi importanti nella lettura proposta da un vecchio patriarca dell’eco-socialismo come André Gorz, o nella riflessione sulla ‘svolta linguistica’ dell’economia condotta da Marazzi, o nelle ricerche sul ‘lavoro autonomo di seconda generazione’ condotte da Sergio Bologna e Andrea Fumagalli, non nasconde una serie di forti riserve, teoriche ma ovviamente anche politiche. Queste riserve – evidenti soprattutto a proposito di alcuni degli autori citati – sono dettate principalmente dall’ombra di un ‘nuovo soggetto’, cui viene imputata la capacità di svolgere una funzione di ‘avanguardia’ politica, in base alla propria collocazione nel ‘centro’ della nuova economia. Ma questo discorso a Formenti non può che apparire debole, prima ancora politicamente che sotto il profilo teorico. Sviluppando quelle medesime ipotesi già al centro delle riflessioni della fine degli anni Settanta, Formenti non può non tornare a sottolineare come, dinanzi alla crescente fusione di ‘lavoro’ e ‘vita’, la distinzione fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo sia del tutto inservibile. Al tempo stesso, a differenza dei neo-marxisti, Formenti evidenzia anche come la trasformazione economica e l’invasione della vita da parte del lavoro non siano interpretabili nei termini marxiani della ‘sussunzione reale’ (ossia, come la fase in cui il capitale, secondo Marx, si impossessa interamente della tecnica e della scienza per rivoluzionare completamente il processo lavorativo), ma possano piuttosto essere intese come riflessi di una sorta di ‘sussunzione formale’ (in cui il capitale si appropria delle forme tradizionali di lavoro, senza però operare una completa riorganizzazione delle funzioni e dei compiti). Questo punto non è ovviamente secondario, perché è proprio in questo scarto fra sussunzione reale e formale che Formenti può collocare il margine di ambiguità della new economy. Come scrive infatti in un passaggio teoricamente importante: «Ma perché parlare di sussunzione reale? Non ci troviamo piuttosto di fronte a un processo di sussunzione formale, nel senso che la logica del mercato capitalistico ‘si sovrappone’ alla prassi comunicativa sociale lasciandole una certa autonomia?  Evidente che, in un certo senso, i due processi convivono. Il punto di vista neomarxista tende tuttavia ad accentuare l’elemento di sussunzione reale, in quanto ciò consente di evidenziare l’aspetto conflittuale del processo» (ibi, p. 243). L’idea della ‘sussunzione reale’, in sostanza, appare rischiosa a Formenti per almeno due motivi: innanzitutto, perché tende a rappresentare la trasformazione capitalistica come un processo che è riuscito effettivamente a ‘inghiottire’ l’intero mondo esterno, i territori, le dimensioni private della vita individuale, persino il corpo, e il risultato inevitabile è che, in questo modo, diventa molto difficile pensare a un fuori che si contrapponga conflittualmente a questo ordine ‘totalitario’. Così, i neo-marxisti, pur dipingendo uno scenario negativo, finiscono di fatto col recepire – pur con segno mutato – le rappresentazioni più celebrative della new economy. Ma il secondo risultato è ancora più negativo: dal momento che il fuori non esiste più, l’unico modo per pensare il conflitto torna ad essere quello del ‘nuovo soggetto’: un soggetto che può diventare un’avanguardia – sociale, politica – grazie alla propria collocazione nel ‘centro’ della produzione immateriale. A tornare sulla scena, in sostanza, è di nuovo la figura novecentesca di Prometeo, che scaccia quella di Hermes, dipinto ancora una volta con i toni ambigui della ‘conservazione’, della ‘nostalgia’, della ‘reazione’. E indicative di questa prospettiva sono le stesse letture che vengono fornite della rivolta di Seattle del dicembre 1999. Se la contestazione del vertice del Wto è il risultato di una sorta di postmoderna ‘armata Brancaleone' (composta da ecologisti e sindacati operai, da agricoltori e adepti della New Age, da nuovi anarchici e vecchi hippy), le interpretazioni neo-marxiste – secondo la critica di Formenti – tendono a ricondurre la rivolta (o quantomeno le sue potenzialità) esclusivamente alla contrapposizione tra capitale e lavoro, e in particolare alla nuova ‘composizione di classe’, emersa dalla trasformazione postfordista. «La qualifica di avanguardie, o nuovo soggetto» - scriveva – «spetta insomma esclusivamente al cognitariato – neologismo che nobilita con echi marxiani il concetto di lavoratori della conoscenza –, vale a dire la ‘classe virtuale’: tecnici, scienziati, intellettuali, informatici, ricercatori, ecc. Una volta assunto tale punto di vista, non ha più molta importanza stabilire se questa avanguardia costituisse una percentuale significativa di coloro che hanno partecipato all’evento reale. Ciò che conta, infatti, è la ricomposizione cognitiva prima ancora che la ricomposizione sociale del lavoro (che, per definizione, è ormai solo lavoro immateriale)» (ibi, p. 265). E, proprio nelle ultime pagine, ripropone, dinanzi alle nuove formulazioni, la convinzione già al cuore della Fine del valore d’uso, ma ne estende ulteriormente la portata, perché in questo caso a essere attaccata frontalmente da Formenti è la stessa nozione di composizione di classe, considerata come ormai del tutto inutile per leggere davvero dentro il ‘segreto laboratorio della produzione’: «se negli anni ’70 si è cercato di trascinare Marx oltre Marx, oggi sembra più arduo trascinare Marx oltre Ford. Non perché le categorie marxiane non siano più in grado di descrivere le dinamiche del tardo capitalismo – come si è visto, funzionano egregiamente, coi dovuti aggiustamenti -, ma perché il livello di unificazione del ‘soggetto di classe’ raggiunto nel corso del ciclo di lotte contro il fordismo è un fenomeno irripetibile. Nel mondo che viene, il concetto di ‘composizione di classe’ difficilmente potrà assumere senso diverso da quello d’una metafora che rinvia alla memoria storica dei movimenti» (ibi, p. 273).
In fondo, la polemica di Formenti contro le ipotesi sul ‘lavoro immateriale’ costituisce il coerente sviluppo della critica della nozione di ‘operaio sociale’ formulata vent’anni prima, mentre l’attacco all’immagine del cognitariato come nuova ‘classe virtuale’, perno della ricomposizione cognitiva, rappresenta la logica prosecuzione della celebrazione di Hermes contro Prometeo, ossia del tentativo di pensare il conflitto «oltre l’antagonismo». A dispetto di questi elementi, che legano saldamente le diverse tappe del percorso di Formenti, c’è però un tratto nuovo in Incantati dalla rete: un tratto che, probabilmente, deriva dalla convinzione di poter trasformare le suggestioni cyberpunk nel brogliaccio di una sorta di ‘programma politico’ per il nuovo millennio. Ed è significativo, da questo punto di vista, che Formenti, per formulare i primi frammenti di un’ipotesi, ricorra alle pagine di un eclettico e indefinibile scrittore anarchico, celato sotto lo pseudonimo di Hakim Bey e noto in Italia per il suo provocatorio opuscolo Taz, pubblicato in Italia proprio dall’editrice Shake. Perché, secondo Formenti, il modo di rappresentare il conflitto deve passare non ‘dentro’ il mondo della produzione e della circolazione di merci, bensì ‘oltre’ quel mondo, e cioè da «ciò che resta fuori»; e, soprattutto, perché non si tratta di ‘prendere qualcosa’, ma solo di «difendere ‘la vita e l’immaginazione’ rimasti qui, nel mondo reale» (ibi, p. 267). Benché non scivoli certo nell’enfasi apocalittica, di cui gli ‘anni ruggenti’ della globalizzazione alimentano una copiosa rinascita, Formenti riconosce così il profilo di un possibile «sincretismo antagonista», all’interno del quale possano trovare un terreno comune le pluralità di contrapposizioni all’unità globale. Un sincretismo che viene fissato nella metafora della «moltitudine», ma non della moltitudine di cui avrebbero scritto Hardt e Negri, e neppure della moltitudine di Virno, bensì in quell’aggregato informe, magmatico, proteiforme che Aldo Bonomi riconosce nelle nuove figure del lavoro degli anni Novanta (cfr. per esempio A. Bonomi, Il trionfo della moltitudine. Forme e conflitti della società che viene, Bollati Boringhieri, Torino, 1996). E, soprattutto, un sincretismo che risulta dalla combinazione delle «strategie di resistenza del corpo, delle comunità locali e del territorio alla sussunzione da parte delle reti globali» (ibi, p. 280).
Solo due anni dopo la pubblicazione di Incantati dalla rete, Formenti è costretto a una prima significativa diversione, non tanto rispetto alla direzione della propria lettura delle trasformazioni produttive, quanto rispetto alla prospettiva di conquista di densità ‘politica’ da parte dell’ipotesi del nuovo «sincretismo». La crisi della new economy, scoppiata proprio all’alba del nuovo secolo, induce infatti Formenti a prendere atto che, almeno in parte, le condizioni degli anni Novanta, in cui erano maturati l’immaginario cyberpunk e la stessa ipotesi ‘sincretista’, sono mutate. La crisi e l’irrompere sulla scena della violenza, dopo l’11 settembre 2001, segnano secondo Formenti una svolta ‘politica’, «che vede lo stato americano e una parte delle corporation high tech alleati contro il ‘blocco sociale’ protagonista delle trasformazioni rivoluzionarie del decennio precedente» (C. Formenti, Mercanti di futuro. Utopia e crisi della Net Economy, Einaudi, Torino, 2002, p. VII). In altre parole, se la rivoluzione digitale è stata il prodotto di una combinazione di attori sociali e culturali estremamente eterogenei, che hanno convissuto per due decenni gli uni accanto agli altri, la crisi segna la fine di quell’alleanza e l’avvio di una controffensiva volta a ‘normalizzare’ il mondo della rete. Quando esamina il panorama variegato del blocco sociale che, negli Stati Uniti, ha dato vita alla new economy, Formenti non lo fa con l’intento di pronunciare un requiem per un mondo ormai destinato alla scomparsa, ma ritiene piuttosto che proprio dai semi di quell’immaginario magmatico possano nascere nuovi frutti, questa volta dalla parte opposta dell’Atlantico. Con questo obiettivo, Formenti deve però iniziare ad articolare un discorso in parte diverso rispetto a quello di Incantati dalla rete, perché si trova a dover pensare effettivamente il conflitto, ossia a pensare come si possa formare un nuovo ‘blocco sociale’, capace di fronteggiare l’offensiva. E, per farlo, torna ancora una volta a guardare a quegli schemi post-operaisti, con cui intrattiene da più di tre decenni un costante rapporto di dialogo critico. In questo senso, Formenti non può infatti evitare di confrontarsi con le tesi di Empire, che, per un verso, riprendono le vecchie ipotesi degli anni Settanta, mentre, per un altro, le ricollocano in una sorta di neue Darstellung, ossia al livello di quella struttura imperiale le cui basi materiali sono date da un mercato che ha ormai steso le proprie reti su tutto il pianeta. Se Hardt e Negri abbandonano la distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, non per questo emendano effettivamente gli errori della vecchia riflessione post-operaista, perché – grazie all’utilizzo della nozione di ‘lavoro astratto’ – finiscono col ridurre mutamenti culturali complessi alla semplice dimensione economica, e col concepire tutte le nuove relazioni sociali che trovano spazio nella rete a momenti di un ciclo produttivo. Ancora una volta – argomenta Formenti nella propria critica – lo schema della sussunzione reale produce il risultato di occultare tutto ciò che, in realtà, rimane fuori: «le attività in questione – riproduzione e cura, chiacchiere, relazioni quotidiane, gioco, divertimento, esperienze emotive, creazione artistica, ecc. – non vengono unificate dal modo di produzione, come avveniva con le vecchie attività professionali omologate dalla catena di montaggio fordista, al contrario: esse sono tanto più funzionali al nuovo modo di produrre quanto più conservano le loro differenze. Per tacere del fatto che, in molti casi, i processi di decentramento produttivo favoriscono addirittura il ritorno di modelli produttivi e relazionali sociali di tipo capitalistico» (ibi, pp. 233-234). Naturalmente, Empire non si limita a riprendere lo schema della ‘sussunzione reale’, perché, in effetti, provvede anche a ricalibrarlo grazie all’adozione di una nozione foucaltiana, o, meglio, all’idea del «biopotere», che trova le sue origini nel pensiero del filosofo francese, ma che Hardt e Negri ridefiniscono sostanzialmente. L’esito di questa operazione non ne muta comunque il significato di fondo, e per questo Formenti può tornare a ribadire i motivi della propria critica: «alla fine di tutti questi giochi di prestigio, condotti a colpi di astrazioni teoriche, ci ritroviamo orfani di qualsiasi soggetto concreto in grado di opporre resistenza alla colonizzazione capitalistica delle relazioni sociali. Il variegato, idiosincratico, riottoso, combattivo universo di individui, comunità, culture, strati professionali, movimenti, ecc. […] sembra svanire di colpo, sostituito da una massa indifferenziata di lavoratori intellettuali subordinati al capitale, peggio, sostituito da una massa di individui astratti la cui stessa soggettività appare come un prodotto del biopotere capitalista» (ibi, p. 236). Ma la distanza critica da Empire non può investire anche l’immagine della moltitudine, anche perché – come si è visto – Formenti in Incantati dalla rete aveva adottato proprio questa nozione per rappresentare in termini metaforici il magma del ‘sincretismo possibile’. Coerentemente, Formenti non può che rigettare la visione di Hardt e Negri anche sotto questo profilo, perché la moltitudine di cui delineano i contorni i due autori di Empire risulta «di volta in volta astratto contenitore concettuale e/o come coacervo di singolarità individuali, per cui appare condannata a restare priva di contenuti, e ad assumere senso politico solo se giustapposta all’idea, non meno vuota e astratta, di Impero» (ibi, p. 255). Invece che a una figura così evanescente come quella di «moltitudine», Formenti si volge a un’«analisi concreta di soggetti e pratiche: da un lato, blocco sociale della Net Economy come convergenza fra movimenti di emancipazione individuale (recupero del liberalismo) e nuove forme di solidarietà e cooperazione (recupero del comunitarismo), dall’altro possibili alleanze di tale blocco con le resistenze locali ai processi di globalizzazione» (ibi, pp. 255-256).
Quando disegna la sagoma di questa alleanza, Formenti pensa probabilmente a quell’articolato fronte di soggetti che ha preso consistenza dopo il vertice di Seattle, che è stato protagonista della contestazione del G8 di Genova, e che sembra – mentre Mercanti di futuro viene licenziato – possa definire ulteriormente il proprio profilo nel corso delle mobilitazioni pacifiste. Per molti versi, le drammatiche giornate genovesi del luglio 2001 non sanciscono invece il battesimo del fuoco per un nuovo movimento, ma di fatto costituiscono il culmine di una parabola destinata a declinare nei mesi seguenti, senza trovare un effettivo radicamento e un reale potere di incidere, non solo a livello politico. Se quell’incerto ‘movimento dei movimenti’ riesce a fornire solo una pallida rappresentazione di quello che poteva essere – per usare le parole di Formenti – un nuovo ‘sincretismo’, il suo principale fallimento consiste nel non riuscire a trovare un collegamento con il mondo del lavoro e con la realtà di una condizione giovanile destinata a rivelarsi sempre più come dominata dalla dimensione della precarietà. Il rapido mutamento dello scenario politico e la maturazione di quella crisi economica globale che esploderà fra il 2007 e il 2008 inducono anche Formenti a un graduale ripensamento, che, a poco a poco, dissolve ogni residua traccia di quel (misurato) ottimismo sulle potenzialità di un controllo ‘dal basso’ della rivoluzione digitale. Il primo passo è costituito da una serie di interventi apparsi fra il 2003 e il 2006, e poi raccolti nel volume Se questa è democrazia. Paradossi politico-culturali dell’era digitale (Manni, Lecce, 2009), in cui Formenti inizia a prendere le distanze dall’ipotesi che le nuove tecnologie possano dar vita a forme di rappresentanza politica ‘post-democratica’. Ma il secondo passo – ancora più radicale – è compiuto con Cybersoviet. Utopie postdemocratiche e nuovi media (Cortina, Milano, 2008), un libro che può essere forse interpretato come una sorta di riavvicinamento di Formenti alle sue originarie matrici teoriche, che troverà peraltro un’ulteriore conferma in Felici e sfruttati.
Nelle pagine introduttive di Cybersoviet, Formenti torna infatti sulle ipotesi conclusive di Mercanti di futuro per prendere atto del fallimento del blocco sociale cui aveva affidato la causa di un rinnovamento delle istanze critiche della rivoluzione digitale: «la Net Economy è sì rinata dalle ceneri della crisi, ma ciò non ha favorito la ricomposizione del blocco sociale su cui si era fondata la sua prima fase; al contrario, da un lato, l’alleanza fra knowledge workers e imprenditoria di Internet (che nel frattempo ha visto colossi emergenti come Google sostituire la galassia delle startups nel ruolo di protagonisti) si è definitivamente rotta, dall’altro lato, il processo di commercializzazione/normalizzazione di Internet (pilotato dalla nuova alleanza fra governi e corporation) è proseguito a ritmo accelerato, riducendo drasticamente gli spazi di democrazia partecipativa» (ibi, p. X).
La presa d’atto di una simile sconfitta segna evidentemente un punto di svolta, che non coinvolge solo la visione delle trasformazioni o le possibilità di far rivivere il vecchio consiliarismo nei nuovi cybersoviet, ma anche il modo stesso di raffigurare il ‘blocco sociale’, il nuovo ‘sincretismo’. E, sotto questo profilo, sono molto significative le frasi – interlocutorie, problematiche – con cui si chiude il volume: «È arrivato il momento di decretare la fine di quella breve, convulsa e appassionante stagione che, dall’inizio degli anni Ottanta a oggi, sembrava aver aperto una ‘finestra’ per trasformare la rivoluzione tecnologica in rivoluzione sociale, culturale e politica? Forse non ancora, ma la possibilità che nuovi orizzonti di speranza si dischiudano a breve-medio termine dipende dal realizzarsi di due condizioni che, allo stato dei fatti, appaiono alquanto improbabili. La prima condizione è che i lavoratori della conoscenza sviluppino una qualche consapevolezza dei propri ‘interessi di classe’, nonché della necessità di allearsi con le masse dei lavoratori del terziario ‘arretrato’ e con quanto resta della classe operaia ‘tradizionale’. La seconda condizione è che l’egemonia della cultura neoliberale e neoliberista non resti schiacciante e incontrastata. In assenza di tali condizioni, sarà assai difficile ottenere risultati sul fronte della lotta per la ‘costituzionalizazione’ dei diritti e dei doveri dei cittadini della rete; e sarà ancora più difficile contrastare le ragioni della sicurezza e del controllo, e il rischio che tanto la sfera pubblica quanto la sfera privata vengano riassorbite nella sfera della produzione e dello scambio. Allo stato dei fatti, purtroppo, le culture della Rete non sembrano avere la minima consapevolezza di tale rischio; al contrario, si rafforza continuamente la diffidenza nei confronti di qualsiasi tipo di ‘ingerenza politica’ (anche se non governativa) negli affari di Internet. Ma restare fedeli al mito anarcoliberista – in un momento in cui il potere si concentra sempre più nelle mani dei giganti della Net Economy che cavalcano le tecnologie del Web 2.0 – significa consegnare ciò che resta della rivoluzione nelle mani del mercato» (ibi, pp. 272-273).


Il ritorno degli spettri

Se le pagine di Cybersoviet risultano già impregnate di un certo fastidio nei confronti delle celebrazioni del potenziale democratico del web, ormai del tutto superate da una sostanziale ‘normalizzazione’, i toni polemici diventano ancora più forti – e pressoché onnipresenti – in Felici e sfruttati. Ma sarebbe sbagliato considerare il ‘ripensamento’ di Formenti solo come il riflesso intellettuale del moto pendolare della storia, per cui siamo destinati ogni volta a riscoprire ciò che in fondo era già noto alle generazioni che ci hanno preceduto, che abbiamo preferito – o dovuto – dimenticare. In Felici e sfruttati non è infatti difficile ritrovare il filo che Formenti ha continuato ad assolvere dentro il labirinto degli anni Ottanta e Novanta, dentro le illusioni e le speranze talvolta contraddittorie di quei decenni, e forse non è neppure così faticoso riconoscere oggi, in quell’intero, tortuoso percorso, l’ostinata ricerca di un modo nuovo di pensare, rappresentare, incarnare i conflitti della società ‘postmoderna’. Da questo punto di vista, non può passare inosservato come nelle prime pagine di Felici e sfruttati tornino ancora ad affiorare il volto severo di Menenio Agrippa e lo spettro della plebe ritirata sull’Aventino, che già si erano affacciati in Prometeo e Hermes. Se la grande narrazione della fine delle ‘grandi narrazioni’ aveva infatti sostenuto che l’ingresso nella ‘società postmoderna’ aveva definitivamente espulso dalla scena della storia (o della ‘fine della Storia’) l’eterna contrapposizione fra i ricchi e i poveri, la realtà del nuovo millennio ha mostrato come la coltre di quella suggestiva rappresentazione fosse estremamente fragile, tanto da apparire oggi persino inconsistente. «Nel primo decennio del XXI secolo» - scrive infatti Formenti, abbandonando le cautele del paludato bon ton accademico - «due catastrofiche crisi finanziarie – prima l’esplosione della bolla dei titoli tecnologici del 2000, poi la frana dei subprime iniziata nel 2008 e tuttora in atto – sembrano poter fare piazza pulita di questa paccottiglia ideologica. In barba alle prediche dei nuovi Agrippa, la cruda realtà del conflitto sociale torna a mostrare il proprio volto. La forbice fra ricchi e poveri si apre oltre ogni limite di decenza (al confronto, la distribuzione totale delle risorse in base al principio paretiano dell’80/20 sembra un paradiso egualitario); la classe media viene schiacciata e colpita duramente, a partire da quei knowledge workers che erano stati indicati come le élite del futuro; la New Economy si riorganizza attorno a un pugno di imprese giganti, tagliando fuori dal mercato le start-up, la ‘leggerezza’ dei bit si dimostra fin troppo volatile, dissolvendosi assieme ai miliardi di dollari bruciati dalle borse impazzite e alle stock options che avrebbero dovuto rimpiazzare i salari, trasformando tutti in imprenditori e rentier; lo smantellamento del welfare e le riforme del mercato del lavoro, realizzati con la benedizione delle socialdemocrazie occidentali, trascinano nella povertà milioni di persone, rimaste senza occupazione o costrette ad accettare lavori dequalificati e mal retribuiti e a sprofondare nel precariato; e via elencando, in una progressione infernale che avrebbe dovuto tappare la bocca ai teorici del win win (tutti vincono), versione postmoderna dell’apologo di Agrippa, in base alla quale il mostruoso arricchimento dei manager della New Economy consentirebbe anche a tutti gli altri di migliorare le proprie condizioni di vita» (ibi, p. 8).
A dispetto di un simile scenario, gli elementi di auto-critica rispetto alle illusioni degli anni Ottanta e Novanta sembrano del tutto evanescenti, tanto che – come è d’altronde evidente anche per il più distratto osservatore del dibattito politico italiano ed europeo – le ricette per rispondere alla crisi non cessano di reiterare in modo ossessivo le convinzioni di due decenni fa, dall’elogio più sperticato dell’‘uomo flessibile’, fino alla coriacea fiducia riposta nelle virtù della ‘mano invisibile’. Così, nella prima parte di Felici e sfruttati, vengono passate criticamene in rassegna le nuove utopie ‘digitalsocialiste’, risorte dopo la crisi del 2000, le riflessioni di autori come Kervin Kelly, Jeremy Rifkin, Yochai Benkler, Manuel Castells, ma anche di autori come Enzo Rullani e Aldo Bonomi. Ad accomunare tutte queste posizioni, peraltro fra loro molto diverse, non è solo una valutazione in fondo positiva delle trasformazioni innescate dalla rivoluzione digitale, che renderebbe possibile un miglioramento delle condizioni sociali e lavorative, ma soprattutto l’immagine ormai del tutto irrealistica delle effettive condizioni dei knowledge workers, o quantomeno della gran parte di loro. Come i blog sono spesso molto lontani dalla mitologia che ne ha fatto un pilastro di una nuova democrazia, così la concreta attività lavorativa dei knowledge workers, ben più che nel territorio sconfinato delle utopie hacker, rientra negli angusti spazi di uno spietato «taylorismo digitale», estremo ma coerente sviluppo di quel taylorismo burocratico in cui Braverman aveva riconosciuto i contorni della «degradazione» del lavoro impiegatizio.
Forse ancora più interessante della demolizione compiuta nella prima parte di Felici e sfruttati, è la seconda, in cui viene esaminato il modo del lavoro. Chi conosce le precedenti riflessioni di Formenti non può certo essere stupito che anche in questo caso una buona parte dell’attenzione venga riservata alle ipotesi avanzate dagli eredi dell’operaismo italiano. Nel nuovo libro ritornano infatti i motivi consolidati del disaccordo, ricalibrati però attorno al nuovo scenario. Il problema principale scaturisce dalle implicazioni dello ‘scioglimento’ della fabbrica nella società, che fa sì che il processo di valorizzazione inglobi ogni ambito di attività, trasformandola in lavoro. «Il paradosso del nuovo operaismo», scrive Formenti, «consiste dunque nell’affermare che nulla è più lavoro, ma che, al tempo stesso, tutto diventa lavoro» (ibi, p. 98). Da questo paradosso derivano anche una serie di aporie, relative all’individuazione del soggetto in grado di farsi portatore di un conflitto reale. In primo luogo, «il carattere eccessivamente astratto di un’idea di lavoro che finisce per coincidere con qualsiasi manifestazione di energia vitale evoca inevitabilmente un’immagine altrettanto astratta del potere con cui è chiamata a confrontarsi: un potere che non può più essere identificato con una classe e/o con istituzioni ben definite, ma rinvia a un complicato e stratificato intreccio di poteri che operano attraverso dispositivi di controllo indiretto piuttosto che di dominio diretto» (ibi, p. 101). In secondo luogo, l’aporia emerge sul terreno dell’identificazione del soggetto conflittuale, perché la totalizzazione della ‘sussunzione reale’, nel momento in cui presuppone che tutto sia già ‘dentro’ il processo di valorizzazione, non è in grado di pensare cosa resta ‘fuori’, effettivamente o solo potenzialmente. Così, sviluppando la critica già svolta nella Fine del valore d’uso, Formenti afferma: «Il dilemma da cui Negri e soci non riescono a districarsi è se sia oggi possibile tracciare un confine fra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico. La loro risposta è – più che ambigua – paradossale, nel senso che è, al tempo stesso, negativa e positiva. Da un lato si dice che nulla ormai può esistere al di fuori del capitale, coerentemente con l’assunto in base al quale la totalità delle relazioni umane viene sussunta nel processo di valorizzazione capitalistica; al tempo stesso si afferma che tutta la produzione sociale – in quanto produzione biopolitica di soggettività – è estranea al capitale e si auto-organizza attraverso forme di cooperazione spontanee e autonome. In altre parole: il biopotere, inteso come potere sulla vita, e la biopolitica, intesa come potere della vita coesistono su un unico punto di immanenza […] Ma anche qui – come nel caso dell’idea di moltitudine – l’irruzione di categorie metafisiche nella teoria sociale e politica gioca brutti scherzi. È infatti evidente – e i nostri lo ammettono – che la rivoluzione non può che irrompere dall’esterno del rapporto di capitale, pena l’impossibilità di rompere la continuità dell’ordine costituito. Al tempo stesso, con una contorsione dialettica, essi affermano che si tratta di un’‘innovazione’ che emerge dall’interno del sistema» (ibip. 102). Per riuscire a tenere insieme queste due visioni fra loro contraddittorie, i post-operaisti – o «nuovi operaisti», come Formenti preferisce chiamarli – devono necessariamente convergere con le rappresentazioni utopiche del ‘digital-socialismo’, che ritengono che la rete configuri già potenzialmente un modo di produzione ‘post-capitalistico’, e che vedono nelle forme di organizzazione ‘orizzontali’. Ma è argomentando la propria distanza rispetto a queste due convinzioni, che Formenti procede a un recupero – non sorprendente, ma neppure scontato – della critica dell’economia politica di Marx.
In primo luogo, questo recupero attiene alla critica di tutte quelle posizioni che intravedono nelle trasformazioni del lavoro avviate dalla rivoluzione digitale il segnale – o addirittura le prime tracce – di un modo di produzione ‘postcapitalista’. Se si adotta una definizione del ‘capitalismo’ non impressionista, e se si recupera la nozione marxiana di ‘modo di produzione capitalistico’, di queste convinzioni non può che rimanere in piedi ben poco. Anche la produzione di conoscenze e informazioni risulta infatti pienamente collocata all’interno della logica della produzione di merci, in cui continuano a vigere i principi dell’appropriazione privata della ricchezza e relazioni sociali di sfruttamento, per quanto le forme di questo sfruttamento siano parzialmente mutate rispetto a stagioni precedenti dello sviluppo capitalistico. In altri termini, secondo quanto scrive Formenti, «il ‘nuovo’ modo di produzione resta a tutti gli effetti capitalistico, anche se il capitalismo, adattandosi fulmineamente alle trasformazioni tecnologiche e culturali, ci costringe continuamente ad aggiornare il nostro bagaglio teorico» (ibi, p. 108). D’altronde, molte delle principali categorie marxiane – secondo Formenti – non appaiono neppure intaccate dalle trasformazioni della rivoluzione digitale, mentre risultano piuttosto inservibili alcune letture ‘industrialiste’ e ‘produttiviste’ che di quelle categorie sono state formulate. In questo caso, Formenti si riferisce naturalmente alla vecchia distinzione fra ‘lavoro produttivo’ e ‘lavoro improduttivo’, già al centro delle sue prime riflessioni sulle innovazioni introdotte dall’informatica nel processo lavorativo, ma – non senza fondate ragioni – può richiamare le pagine del cosiddetto Capitolo VI inedito del Capitale per mostrare come lo stesso Marx avesse già ben chiaro che le trasformazioni capitalistiche tendevano a esaltare sempre più la natura cooperativa del lavoro, e che perciò diventava necessario allargare sempre più lo spettro del lavoro effettivamente ‘produttivo’, fino a ricomprendervi una sfera sempre più elevata di funzioni. Da questo punto di vista, allora, Formenti suggerisce che Marx, dinanzi alla novità della rete, «avrebbe ulteriormente esteso l’ambito di applicazione del concetto, fino ad abbracciare tendenzialmente la totalità dei soggetti interconnessi» (ibi, p. 109). Inoltre – dato che, rinunciando a ricondurre il ‘lavoro produttivo’ alla produzione di merci, sottolineava come si trattasse sempre di un lavoro produttivo di plusvalore – l’autore del Capitale avrebbe tratto una serie di conseguenze relative alla dilatazione del processo di valorizzazione: «Se infatti è vero che il concetto di lavoratore produttivo non comprende solo un rapporto fra attività ed effetto utile, fra lavoratore e prodotto del lavoro, ma include anche un rapporto di produzione specificamente sociale, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale, è fuor di dubbio che la New Economy abbia impresso tale marchio su una massa di persone ben più estesa rispetto al passato» (ibi, p. 110). In sostanza, il fatto che la produzione contemporanea non abbia più – o meglio, abbia solo in parte – come obiettivo la produzione di ‘merci materiali’, non significa né che il lavoro produttivo venga meno, né che le relazioni sociali capitalistiche vengano superate da un logica di produzione ‘post-mercantile’: «sostenere che oggi l’economia capitalistica si fonda soprattutto sui settori che producono informazioni e conoscenze non dimostra che siamo di fronte a un nuovo modo di produrre, ma dimostra piuttosto che il capitalismo realizza una quota crescente di plusvalore attraverso la produzione/distribuzione di servizi, emozioni, sentimenti, esperienze piuttosto che di automobili, carbone e acciaio» (ibi, pp. 110-111).
In secondo luogo, Formenti torna a considerare il rapporto fra ‘sussunzione formale’ e ‘sussunzione reale’, che – come si è visto – era già presente nei suoi precedenti lavori. Anche in questo caso, riprende la convinzione che non si tratti di due ‘stadi’ di sviluppo, bensì di modalità di organizzazione che si intrecciano storicamente, e che, soprattutto, si intersecano costantemente all’interno delle dinamiche della new economy. In particolare, i processi che hanno scandito il primo decennio del nuovo secolo hanno ridotto i margini di autonomia dei coloni del ‘cyberspazio’, e il miraggio di una fuga lontano dal mondo dominato dalla logica mercantile e dallo sfruttamento è progressivamente svanito, un po’ come avvenne per i pionieri americani, nel momento in cui la ‘Frontiera’ venne effettivamente raggiunta anche dalle strade ferrate e dalle grandi corporation. Senza dubbio, non tutte le attività della ‘nuova economia’ possono essere ‘recintate’, se non al prezzo di perdere gran parte delle loro caratteristiche, dovute al fatto che si basano spesso su forme di cooperazione che hanno finalità extra-economiche, ma ciò significa proprio che ‘subordinazione formale’ e ‘sostanziale’ rappresentano fasi cicliche complementari, e non tappe di un’evoluzione storica unidirezionale. In sostanza, secondo il ragionamento di Formenti, «il capitalismo sfrutta contemporaneamente tutte le modalità di subordinazione del lavoro al capitale, scegliendo di volta in volta – e spesso ibridandole – le soluzioni più adatte alle caratteristiche di un determinato paese, settore produttivo, contesto socioculturale ecc.» (ibi, p. 116).
Il ‘ritorno a Marx’ compiuto in Felici e sfruttati non può essere rappresentato però come una piena e incondizionata riabilitazione del pensiero dell’autore del Capitale, perché, in verità, il recupero di Formenti si limita alla pars destruens, all’utilizzo delle categorie della critica dell’economia politica per mostrare come esse conservino la loro  validità persino un secolo e mezzo dopo la loro formulazione. Il discorso si fa invece piuttosto diverso, nel momento in cui Formenti passa a considerare le differenti modalità con cui il pensatore di Treviri concepì la ‘transizione’ oltre il capitalismo. A questo proposito, Formenti non si concentra tanto sull’ipotesi della caduta tendenziale del saggio di profitto, al cuore del Primo libro del Capitale, quanto su un’altra visione della transizione, delineata da Marx nei Grundrisse e, in particolare, in quella breve sezione nota in Italia – già nei primi anni Sessanta – come «frammento sulle macchine». In quelle pagine – schematiche, ma al tempo stesso visionarie – ipotizzava che lo sviluppo delle macchine, l’utilizzo delle conoscenze scientifiche e della tecnologia tendessero a rendere sempre meno rilevante, dal punto di vista quantitativo e da quello qualitativo, il lavoro umano, tanto che, ad un certo punto, il tempo di lavoro sarebbe diventato una «base miserabile» rispetto alla ricchezza effettivamente prodotta. La conseguenza logica cui perveniva Marx – in realtà, in termini piuttosto generici – era che il crescente contrasto fra la realtà del processo produttivo e il principio della misura del tempo di lavoro avrebbe innescato un crollo della produzione basata sul valore di scambio. Questa previsione si trova solo fugacemente accennata nei suoi quaderni preparatori della fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, perché in seguito Marx preferì abbandonarla in favore della tesi della caduta tendenziale del saggi di profitto (una tesi che traduceva solo parzialmente la ‘visione’ dei Grundrisse). Ma è proprio da quelle pagine e da quell’ipotesi stilizzata che, da circa quattro decenni, si esercita il paradigma ‘post-operaista’. Più o meno a partire dalla crisi degli anni Settanta del secolo scorso, alcuni teorici provenienti dall’operaismo dei «Quaderni rossi» iniziano infatti a guardare a quegli appunti per cercare di sbrogliare l’intricata matassa dei conflitti della società ‘post-industriale’. Non è certo difficile rinvenire proprio nella centralità del «Frammento» il tratto che accomuna delle ipotesi sviluppate lungo questi quattro decenni non solo da Hardt e Negri, ma anche da Virno e altri autori che si richiamano – con differenti soluzioni – al paradigma post-operaista. E non è certo sorprendente che Formenti si trovi proprio su questo punto in disaccordo non solo con i continuatori del filone operaista, ma con lo stesso Marx. Da questo punto di vista, infatti, ipotizzando un Marx redivivo, cui sia concesso di conoscere il mondo della rete e della new economy, Formenti scrive che l’autore del Capitale «avrebbe non pochi motivi di orgoglio nel constatare che certe sue categorie – come quelle di lavoro produttivo e lavoro improduttivo, plusvalore relativo e plusvalore assoluto ecc. – svelano i meccanismi della nuova economia meglio di tutte le chiacchiere dei guru della Silicon Valley» (ibi, p. 119). Ma, al tempo stesso, non può fare a meno di riconoscere: «Sarebbe invece meno orgoglioso del fatto che, a un secolo e mezzo di distanza, le sue anticipazioni visionarie sulla fine della legge del valore/lavoro restano tali. Detto altrimenti: se c’è un aspetto del pensiero di Marx che il capitalismo digitale è riuscito a rendere obsoleto è l’illusione che la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione possa di per sé determinare il crollo del capitalismo» (ibidem).
Una simile posizione non è però semplicemente una rivisitazione delle critiche al determinismo delle ‘teorie del crollo’, perché, in realtà, è funzionale a una ricerca che sostituisca alle previsioni deterministe sulle ‘contraddizioni’ l’analisi concreta delle posizioni materiali, e alla convinzione risposta nella funzione palingentica di un nuovo ‘soggetto’ l’indagine sulla realtà delle figure conflittuali. Se in Cybersoviet Formenti scriveva che «delineare una nuova composizione di classe appare impresa ardua, se non impossibile, ma rinunciare all’impresa significa rinunciare alla possibilità di attribuire senso ai conflitti sociali contemporanei» (ibi, p. XIII), in Felici e sfruttati questa esigenza viene ulteriormente ribadita, e così torna a chiedersi, con ancora maggior forza, se i lavoratori della conoscenza siano davvero una forza potenzialmente compatta: «i knowledge workers costituiscono davvero una classe unitaria, o si articolano in uno strato superiore e uno strato inferiore di portatori di interessi divergenti, se non opposti? Il loro ruolo, nel complesso scenario dei conflitti di classe globali, è davvero quello di un’avanguardia? Infine, se la risposta all’ultima domanda è negativa: quali altri soggetti possono aspirare a tale ruolo? In breve: qual è, oggi, la composizione politica del proletariato internazionale?» (ibi, pp. 122-123). La risposta di Formenti a questi interrogativi è naturalmente interlocutoria, ma ciò che comunque rileva è il definitivo esaurimento del potenziale di quel «Quinto Stato» cui aveva in precedenza affidato un ruolo importante. In effetti, la «classe creativa» celebrata da Richard Florida è stata investita in modo rilevante nel corso dell’ultimo decennio, e ne è uscita divaricata in due strati sempre più lontani fra loro in quanto a reddito e potere. Da una parte, «lo strato superiore di questa classe sui generis è effettivamente uscito vincitore dai sommovimenti tecnologici, finanziari e sociali degli ultimi decenni» (ibi, p. 125), e la vittoria elettorale di Barack Obama può essere rappresentata anche come l’accesso del vertice del Quinto Stato nella ‘stanza dei bottoni’. «A progettare la campagna elettorale di Obama sono stati infatti i pezzi da novanta della Silicon Valley», scrive Formenti, dissolvendo i fiumi di retorica versati sulla vittoria del primo presidente afro-americano, «mentre ad assicurarne la vittoria sono state le reti sociali e le competenze tecnologiche di milioni di giovani nerd ai quali, grazie alle modalità partecipative e collaborative con cui hanno condiviso una campagna vissuta ‘dal basso’, si è fatta nutrire l’illusione di essere i veri vincitori, laddove avevano semplicemente fornito la massa di manovra ai nuovi padroni, aiutandoli a incistarsi nel cuore dell’inedito apparato lobbistico in via di costruzione a Washington» (ibi, p. 127). La rivoluzione del blocco sociale della new economy si è così realizzata in modo molto diverso da come l’avevano pensata negli anni Novanta gli alfieri delle utopie cyber, mentre l’ascensore che conduce verso i «piani alti» del Quinto Stato sembra essersi definitivamente bloccato. Ed è per questo, dunque, che Formenti ritiene sia opportuno «abbandonare i sogni sulle moltitudini che si auto-organizzano e si autogovernano attraverso la rete e riprendere a ragionare sulla composizione politica del proletariato, allargando lo sguardo a livello globale» (ibi, pp. 127-128). Formenti guarda perciò oltre la semplice schiera della «classe creativa» e persino oltre l’Occidente, per scoprire come gli scioperi cinesi degli ultimi anni nel settore metalmeccanico siano stati condotti da operai giovanissimi, senza il supporto di strutture politiche e sindacali, ma grazie alla comunicazione ‘orizzontale’ di blog e social network. Ciò non induce certo Formenti a riabilitare le vecchie utopie sul potenziale democratico e liberatorio delle nuove tecnologie, ma lo spinge piuttosto a suggerire la possibilità di un utilizzo strumentale di queste tecnologie da parte persino della ‘vecchia’ classe operaia cinese, e a formulare l’ipotesi di una ‘ricomposizione’ politica di un fronte senz’altro eterogeneo: un fronte «fondato sulla convergenza di interessi fra neoproletariato industriale, classe creativa e migranti, un’alleanza saldata dall’uso delle nuove tecnologie di rete come strumenti di mobilitazione e di organizzazione politica delle lotte» (ibi, p. 137).
Il libro di Formenti ha trovato un lettore entusiasta in Mario Tronti, che sull’inserto di «alfabeta2» ha scritto, commentando le pagine di Felici e sfruttati: «È un grido liberatorio, di cui si sentiva il bisogno, oppressi come siamo, ciascuno di noi, ogni momento, da questa nuova religione del virtuale. Perfino il tumulto di piazza, il gesto collettivo più materiale che storicamente esista, viene ormai ascritto alla virtù del mezzo di comunicazione. Collegati in rete, e con le armi degli sms, si abbattono i tiranni e si eleggono i presidenti. Scompaiono le motivazioni di fondo delle rivolte e i poteri occulti che muovono le scelte. Non ci si ferma a riflettere sul fatto che, magari proprio perché quegli eventi assumono quella modalità, risultano effimeri, momentanei, esposti a una eterodirezione, di cui non si sa nulla, ma che è molto più solida e radicata e duratura. Insomma, mi piace questo libro, per questa ragione: quello che pensavo da sempre, per intuito – ma l’intuito, quando è ben educato dall’esperienza, raramente sbaglia – mi viene qui documentato da una mole di letture, che io non ho fatto e che, prometto, non farò mai» (M. Tronti, Per una critica dell’immaterialismo storico, in «alfalibri», n. 1, supplemento ad «alfabeta2», n. 9, maggio 2011, p. 11). A ben vedere, l’entusiasmo di Tronti per il libro di Formenti non è sorprendente. Innanzitutto, perché nelle ultime pagine di Felici e sfruttati, quando vengono evocati gli scioperi degli operai metalmeccanici cinesi e l’eventualità che, a partire da questo nuovo protagonismo, si possa avviare un nuovo ciclo di mobilitazione, si può riconoscere la ripresa – quasi mezzo secolo dopo – di un celebre grafico, pubblicato sull’ultimo numero della rivista «Classe operaia», poco dopo la metà degli anni Sessanta: un grafico che, ricostruendo la crescita del numero e della proporzione di lavoratori salariati nel mondo, pareva suggerire l’ipotesi che la conflittualità di fabbrica dovesse generalizzarsi, uscendo anche fuori dai confini dell’Occidente. Inoltre, perché il lavoro di Formenti converge con la posizione di Tronti anche da un secondo punto di vista, e cioè perché, superando l’idea che esista una contrapposizione fra la ‘vecchia’ classe operaia e i ‘nuovi’ lavoratori della conoscenza, ricostruisce i margini per pensare il fronte del lavoro come – almeno potenzialmente – unitario. Infine, perché, al termine del proprio discorso, Formenti arriva a ‘ri-scoprire’ la vecchia, bistrattata e demonizzata «autonomia del politico». Naturalmente, Formenti non rispolvera certo quell’autonomia del politico che si risolve nell’esaltazione della ‘presa del potere’, o nella convinzione che lo Stato e il livello delle istituzioni siano effettivamente autonomi dalla base produttiva e che possano dunque costituire un avamposto da cui operare una (più o meno radicale) trasformazione sociale. La sua ripresa si rivolge invece a quella dimensione dell’autonomia del politico che attiene, più che alla funzione di rappresentanza, a quella strettamente organizzativa: una funzione che partiti e sindacati – secondo il giudizio certo non isolato di Formenti – non possono più svolgere, ma che neppure può essere assolta efficacemente da quelle reti spontanee e orizzontali su sui tanta retorica si è esercitata, e continua a esercitarsi. «Fra poco», scrive infatti, «a credere alle rivoluzioni fatte via Facebook e Twitter resteranno, forse, solo i manager di Facebook e Twitter», perché – soprattutto da eventi come la ‘Primavera araba’ – sono emersi, insieme alle potenzialità, anche tutti i limiti delle effettive capacità di mobilitazione dei social network: «abbastanza potenti da abbattere i tiranno di turno, ma del tutto disarmati di fronte alle forze organizzate che finiranno per incanalare l’energia e dirigerla verso i propri obiettivi» (ibi, p. 148).
Quando giunge a evocare l’autonomia del politico, Formenti tocca probabilmente il punto estremo della propria riflessione autocritica. Da un certo punto di vista, l’intera riflessione compiuta attraverso un trentennio tendeva ad allontanarsi non tanto dalla ‘politica’ in senso lato – perché ovviamente i temi che considerava erano, per le loro stesse caratteristiche, ‘politici’ – quanto proprio dall’autonomia del politico, ovvero dall’idea che fosse indispensabile ricercare un livello ‘organizzativo’, ‘istituzionale’, ‘politico’, capace di poter condurre a sintesi la parzialità di interessi disseminati. Le motivazioni storiche del sospetto nei confronti dell’autonomia del politico sono più che scontate, e rimandano alle torsioni politiciste della fine degli anni Settanta, alle derive che indussero a rappresentare il conflitto in termini, non solo metaforicamente, militari. La ricerca di Formenti si distaccava da quelle derive per almeno due profili. In primo luogo, perché, negando che la posizione ‘avanzata’ o ‘arretrata’, ‘centrale’ o ‘marginale’ di un soggetto fosse determinata dalla sua collocazione nel circuito produttivo, dissolveva le basi stesse del concetto novecentesco di ‘avanguardia’, così saldamente radicato nella tradizione marxista. In secondo luogo, perché, rifiutando la logica dell’antagonismo, proponeva piuttosto la logica dell’esodo, della diserzione, della sottrazione, come unica strada capace di consolidare effettivamente i margini di autonomia dalla logica di un’economia ferocemente distruttiva. La preferenza per il volto sfuggente di Hermes, contrapposto a quello di Prometeo, era propria l’esito di una simile opzione, faticosamente guadagnata nella catastrofe novecentesca. Ora quel sentiero sembra però aver condotto Formenti a un bivio, se non addirittura a un vicolo cieco. Per molti versi, la fiducia riposta nella strada alternativa di Hermes sembra nuovamente aver condotto Formenti sulle tracce di Prometeo. Non certo – come si è visto – perché divenga oggi possibile impossessarsi una tecnica estranea e farne uno strumento nelle mani dei knowledge workers, ma perché diventa possibile – forse necessario – pensare in termini ‘politici’ a un soggetto capace di opporsi a una marcia all’apparenza inarrestabile. Ovviamente, il ripensamento non conduce Formenti a cancellare con un tratto gli sforzi di un cammino trentennale, e così, quando richiama in vita dall’impolverato scaffale operaista le nozioni di ‘composizione tecnica’ e ‘politica’ non tende certo a riprodurne il determinismo che talvolta le ha accompagnate. In questo senso, la dimensione ‘politica’ non scaturisce – come Atena dalla testa di Zeus – dalle reti della produzione immateriale, ma solo dalla storia materiale e dalle sue incognite. Al tempo stesso, Formenti si tiene ben lontano dalla tentazione di cadere in quella sorta di fascinazione tecnologica, che spesso ha trasformato l’attesa dell’avvento di un nuovo soggetto in una versione aggiornata, e solo in parte più raffinata, della teoria degli stadi di sviluppo. Ma, proprio perché la politica si presenta con gli abiti della contingenza, non può che riproporre ancora una volta l’interrogativo sul modo in cui pensare il nuovo ‘sincretismo’. Un interrogativo cui, naturalmente, non si può rispondere solo evocando la natura strumentale dell’organizzazione, ed evitando così l’enorme nodo della rappresentazione. Tanto che, inevitabilmente, la domanda di fondo che aveva indirizzato la ricerca di Formenti negli anni Ottanta, non può che riaffiorare.
Al principio degli anni Novanta, nella prefazione a Piccole apocalissi, Formenti si soffermava su una lettura della Centesimus annus, che, dopo un secolo dalla Rerum novarum e all’indomani del crollo del blocco sovietico, aveva ribadito le linee della dottrina sociale della Chiesa. Discostandosi dalle letture di molti intellettuali, Formenti sottolineava allora come l’enciclica ponesse una sfida radicale al pensiero ‘progressista’ e a ciò che rimaneva della sinistra novecentesca. «Il comunismo», scriveva Formenti, «era una ‘religione’ che prometteva la salvezza in questo mondo, che si proponeva di dare un senso alla vita qui e ora, nella concreta attualità storica e non nell’aldilà», e, così, «il crollo di questa religione apre un vuoto immenso: il mondo si trova orfano di ideologie ma non dei grandi interrogativi etici e antropologici a cui l’ideologia offriva risposta» (C. Formenti, Piccole apocalissi, cit., p. XIII). In questo quadro, se la Centesimus annus poteva essere letta davvero come la riaffermazione di principi etici legati alla trascendenza, ma da difendere concretamente nella storia, la deriva che rischiava di imboccare il pensiero progressista – una deriva effettivamente percorsa nel ventennio seguente – era quella di un «laicismo antipapista», destinato a essere riassorbito «nel delirio della mitologia ‘laica’, di un sistema di valori materialistici del tutto ignari dei propri fondamenti religiosi» (ibi, p. XIV). In quel testo, Formenti – percorrendo un binario simile a quello indicato, per esempio, da un intellettuale senza dubbio originale come Romano Madera – riteneva che la sfida si riaprisse non sul terreno del conflitto, ma su «quello – eminentemente moderno – della contaminazione sincretistica fra differenti tradizioni religiose» (ibi, p. XIV). Oggi, tutti i limiti di quel percorso diventano evidenti, ma la domanda di fondo che Formenti si poneva diventa oggi forse ancora più importante di quanto non lo fosse due decenni fa. E, da questo punto di vista, non è certo casuale che lo stesso Tronti abbia indicato – come strada obbligata per fuoriuscire dal cortocircuito di un eterno presente – quella che passa dal ‘teologico-politico’. Porsi oggi il problema del ‘politico’ e della sua autonomia, rispetto alla materialità dei rapporti sociali, non significa infatti tornare semplicemente a sperimentare la fatica dell’organizzazione o a tessere la trama della rappresentanza di interessi disseminati e magmatici. Significa anche porsi il problema della ‘rappresentazione’ del destino comune in una società post-storica, che non sa concepire il futuro se non nella forma apocalittica della catastrofe, o come pura dilatazione del presente. Ed è proprio in questo punto che il filo pazientemente seguito da Formenti nel corso di tre decenni rischia di aggrovigliarsi. Perché, una volta abbandonato Prometeo, il volto di Hermes non può che rimanere del tutto sfuggente, e non può che apparirci oggi più enigmatico che mai. Per Benjamin, l’angelo della storia aveva il viso rivolto al passato, alle sue macerie e ai suoi morti. Ma le sue ali erano spinte irresistibilmente nel futuro dalla tempesta del progresso. Oggi, per noi, quella tempesta non può avere alcun reale significato, perché il progresso non ci appare come una tempesta che ci spinge verso il futuro, ma, semmai, solo come una catastrofe che pende sulle nostre esistenze. Anche per questo, l’angelo senza nome «ha indossato la maschera del viaggiatore, di un’entità vaga e inafferrabile, che quasi scompare per risolversi nel suo eterno movimento». E «travestito, ambiguo e proteiforme», ha attraversato il nostro tempo continuando a osservare e ad aspettare. Oggi, forse, quel viaggio – o almeno il suo primo tratto – è concluso, ma non per questo l’angelo sembra debba svelare il suo volto. Senza che per noi sia dunque possibile intendere se sia in grado di escogitare un nuovo percorso, o debba imboccare, ancora una volta, la strada indicata da Prometeo, e consumare così il proprio destino nell’impeto di un’effimera ribellione. O se, invece, non sia giunto il momento che gli uomini «riescano nuovamente ad avvertire il soffio impalpabile della sua presenza, e che tornino a trovare nomi e immagini per la divinità che non cessa di chiamarli da un futuro imprecisato».

Damiano Palano