sabato 3 marzo 2012

Il senso comune delle suocere (e dei politologi). Sull’ultimo libro di Ilvo Diamanti

di Damiano Palano


 Questo articolo è apparso sul sito dell'Istituto di Politica - Rivista di politica on line


Quando Manzoni ricostruiva la caccia agli untori nella Milano sconvolta dalla peste, sapeva bene che non tutti gli abitanti del capoluogo meneghino erano davvero caduti in preda alla follia collettiva. «C’era pur qualcuno che non credeva agli untori, ma non poteva sostenere la sua opinione contro l’opinione volgare diffusa». In realtà, come scriveva, «il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune». È proprio questa frase manzoniana che chiude il recente volume di Ilvo Diamanti, Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche (Il Mulino, pp. 118, euro 10.00), e che spiega un titolo altrimenti piuttosto criptico. Naturalmente, l’obiettivo polemico di Diamanti non è il ‘senso comune’ dei milanesi del Seicento, perché le sue osservazioni caustiche sono indirizzate al ‘senso comune’ della comunità dei politologi e di quanti studiano per mestiere le trasformazioni politiche. E, per quanto celati dal garbo accademico, gli accenti polemici del suo discorso non possono sfuggire. D’altronde, il pamphlet di Diamanti riproduce sostanzialmente la prolusione presentata nel settembre 2010 all’Assemblea annuale della Società Italiana di Scienza Politica, e nel testo che appare ora la componente critica nei confronti della comunità professionale dei politologi italiani viene ulteriormente alla luce. Invitando, quantomeno, a una riflessione sui pilastri della disciplina.
In sostanza, l’accusa che Diamanti rivolge agli studiosi di politica è di avere adottato una serie di assunti che sono diventati i cardini del ‘senso comune’ politologico: convinzioni date per scontate, ribadite mille volte tanto da non essere più neppure discusse, ma in contrasto con quanto ci suggerisce il ‘buon senso’. Soprattutto perché, col tempo, quel ‘senso comune’ ci impedisce di capire cosa succede nel mondo reale. Se queste sono le premesse generali del discorso di Diamanti, le sue argomentazioni si sviluppano però su due livelli differenti.
In primo luogo, infatti, il bersaglio della polemica di Diamanti è una scienza politica che definisce come «statologica»: una scienza che si concentra cioè solo sulla dimensione istituzionale e su ciò che avviene ai ‘vertici’ del sistema politico, disinteressandosi invece di quanto avviene alla base, nei rapporti sociali. In questo modo, Diamanti contesta la validità della distinzione formulata negli anni Cinquanta del secolo scorso – e ripresa in Italia da Giovanni Sartori – fra la ‘scienza politica’, concentrata sulle istituzioni di governo, e la ‘sociologia politica’, deputata invece a studiare la società e i comportamenti individuali. Una simile ripartizione dei compiti, argomenta Diamanti, è sempre stata fuorviante, ma lo diventa ancora di più oggi, quando la gran parte delle trasformazioni chiama in causa la ‘persona’ (la ‘personalizzazione’ della politica, dei partiti, ecc.), e dunque una dimensione che non può essere ridotta alla sfera puramente istituzionale. «Per questo», scrive Diamanti, «diventa difficile sostenere l’esistenza di una distinzione netta fra scienza e sociologia (della) politica. O meglio: fra una lettura della politica come ‘produzione’ dello Stato e delle istituzioni oppure della società e dei suoi attori. E diviene difficile anche avanzare interpretazioni contrastanti, più che diverse, degli stessi fenomeni, che attraversano società e politica» (p. 20). Paradossalmente, dunque, mentre la dimensione personale e le dinamiche territoriali sono tornate a conquistare una crescente centralità nella politica reale, la politologia se ne è allontanata, considerando per esempio gli studi sulle subculture politiche territoriali come un campo estraneo alla scienza politica e proprio solo della sociologia, o, meglio, di un suo campo specifico. «È su questa incongruenza», scrive allora Diamanti, «che si sviluppa la mia riflessione. Che prende in considerazione la sfera della vita quotidiana e del senso comune per analizzare e comprendere non tanto l’ambito della micro-politica, ma della politica tout-court. Il campo delle istituzioni e delle organizzazioni politiche. Mi interessa, cioè, restituire la società alla politica, per favorire la comprensione – e prima ancora, l’osservazione – della politica, allargando lo sguardo su ambiti troppo spesso trascurati. Perché è la politica stessa a essere cambiata, ad aver allargato e, per alcuni versi ridefinito, il campo di azione e gli attori. E non possiamo rinunciare a comprendere la realtà per non mettere in discussione i nostri paradigmi. I nostri (pre)giudizi» (p. pp. 24-25).

Se la scienza politica «statologica» è il grande bersaglio contro cui si rivolgono gli assalti di Diamanti, gran parte delle sue osservazioni si volge verso avversari molto più specifici. Più precisamente, Diamanti prende infatti di mira due convinzioni che hanno strutturato negli ultimi due decenni il ‘senso comune’ politologico. In primo luogo, l’idea che i sistemi democratici contemporanei si trasformino – secondo la formula coniata negli anni Novanta da Bernard Manin – in una nuova ‘democrazia del pubblico’: una democrazia in cui gli elettori diventano passivi come il pubblico di uno spettacolo, cui è concesso solo di reagire con l’approvazione o il dissenso, ma non più di partecipare realmente come avveniva nella stagione della democrazia dei partiti. In secondo luogo, la tesi che nella nuova fase politica – segnata dalla mediatizzazione e della personalizzazione – le tradizioni politiche si siano dissolte, che l’identificazione coi partiti si sia del tutto volatilizzata, e che il voto sia diventato ‘liquido’, libero di fluttuare nel mercato politico alla ricerca della proposta più convincente o affascinante. «Il paradigma dominante», sintetizza dunque Diamanti, «sostiene che il declino delle appartenenze e delle organizzazioni politiche, e la parallela ascesa della comunicazione, riducono l’influenza delle strutture di riproduzione del consenso fondate sulle tradizioni sociali, ideologiche e locali. Accentuando l’importanza degli interessi individuali e di gruppo. In generale, attribuendo rilievo crescente alla razionalità economica, come principio e metro delle scelte personali. Tuttavia, nella ‘democrazia del pubblico’ i comportamenti individuali rischiano di venire riassunti e dedotti a partire da quelli dei leader e dalle strategie manipolatorie dei media» (p. 52). Una simile distorsione non nasce soltanto da un eccesso di sopravvalutazione del mutamento e dei suoi effetti, ma anche dalla stessa impronta genetica che contrassegna la politologia «statologica». «Il problema», secondo Diamanti, è infatti «che le concezioni ‘verticali’ della politica rendono difficile comprendere fino in fondo ciò che avviene nella società. Rendono difficile, altresì, interpretare i meccanismi che orientano le decisioni degli individui in tempi di individualizzazione. In particolare, la retorica del cambiamento guidato dalle istituzioni e dalla comunicazione induce a sottovalutare il peso e le resistenze della ‘tradizione’. Da ciò la singolare e sintomatica contraddizione fra previsioni e realtà in alcuni ambiti di ricerca tra politica e società» (pp. 52-53).

In realtà, come chiarisce Diamanti, le cose sono molto diverse da come vengono descritte dal ‘senso comune’ politologico. E, così, lo sguardo della suocera, fra gli scaffali di un supermercato, riesce a percepire la sensibilità degli italiani forse meglio di quello degli esperti. Perché il cittadino-elettore non è un elemento così passivo come pretende l’immagine della ‘democrazia del pubblico’. Perché il voto non è diventato affatto liquido, ma tende a muoversi (soprattutto in Italia) all’interno di compartimenti stagni, entro limiti di area piuttosto precisi. E, infine, perché le tradizioni politiche continuano a contare e a orientare i comportamenti politici, nonostante la colorazione e i contorni di queste tradizioni siano talvolta cambiati. «L’avvento della comunicazione di massa, della democrazia del pubblico», secondo Diamanti, «non ha dissolto questo retroterra», e «neppure ha spostato il metro di valutazione degli elettori dai valori agli interessi, dall’identità sociale alla razionalità individuale» (p. 94). Ciò non significa che gli elettori votino in modo irrazionale. Ma solo che, per comprendere davvero le logiche che orientano i comportamenti, è necessario adottare una prospettiva più attenta alle relazioni micro-sociali. Ed è proprio in questa direzione che Diamanti indica l’utilità di una sorta di prospettiva ‘fenomenologica’: una prospettiva capace di ricostruire la mappa delle ‘micro-relazioni’ sociali in cui gli individui – anche oggi – continuano a maturare le loro posizioni e le loro incrollabili certezze, e così di percepire davvero la fisionomia di quel ‘senso comune’ che – magari in aperta contrapposizione con il ‘buon senso’ – indirizza il comportamento politico dei cittadini. Ovviamente, il ‘buon senso’ di cui parla Diamanti richiama l’importanza della ‘tradizione’, ma non può essere confuso con un’immagine ‘tönniessiana’ della comunità, ossia con una visione della Gemeinschaft come qualcosa che affonda le radici nella storia e che riaffiora sotto la scorza superficiale della Gesellschaft. Il ‘senso comune’ è piuttosto – nella rappresentazione che ne fornisce Diamanti – l’esito di una costruzione sociale, e dunque un tessuto di significati cui ognuno di noi attinge per interpretare la realtà e per compiere delle scelte. Ed è proprio la sottovalutazione di questo senso comune – centrale anche nella società mediatizzata – che condanna il ‘senso comune’ dei politologi a formulare previsioni sbagliate e a rimanere prigioniero di una sorta di ‘dissonanza’. «Questa dissonanza fra pre-visioni e realtà, la stessa difficoltà a rilevarla e a riconoscerla» – conclude allora – «non possono non sollevare dubbi sull’adeguatezza degli strumenti teorici e metodologici adottati. Ho il sospetto, cioè, che gli approcci prevalenti negli studi e tra gli specialisti politici stentino a comprendere i cambiamenti, ma anche gli avvenimenti e i fenomeni più importanti dei nostri tempi. Perché concentrano la loro attenzione – spesso in modo esclusivo – sulle istituzioni e sugli attori politici a livello ‘macro’ mentre sottovalutano, in particolare, quel che si muove nella società. Non solo, ma si disinteressano delle percezioni che si formano e prevalgono nelle relazioni interpersonali e locali. Ambiti ritenuti poco rilevanti, dal punto di vista euristico ma, prima ancora, epistemologico. Variabili socio-centriche inadatte, in quanto tali, a spiegare i fenomeni politici» (p. 84).
Al di là della curvatura polemica, la proposta di Diamanti non può passare inosservata, perché invita a mettere in questione molte ‘macro-teorie’ che hanno dominato negli ultimi anni e a impegnarsi in una fenomenologia del ‘senso comune’. Una fenomenologia che prenda davvero sul serio la cultura e il modo con cui gli individui si rapportano con il mondo della politica. E che riesca così a esplorare i mutamenti più profondi della società italiana, magari partendo proprio dal ‘senso comune’ delle suocere.
C’è però anche un altro motivo per cui la provocazione di Diamanti dovrebbe essere presa in seria considerazione dalla comunità politologica. Quando attacca la scienza politica «statologica», Diamanti mette infatti in discussione la distinzione fra ‘scienza politica’ e ‘sociologia politica’ canonizzata in Italia da Giovanni Sartori: proprio questa distinzione, a ben vedere, ha finito non solo col recidere uno dei rami più ricchi della ricerca italiana, ma anche col rimuovere la lezione delle vecchie scienze sociali di inizio Novecento, che non cessarono mai di ricercare la base più profonda dei processi di aggregazione politica nei fenomeni micro-sociali e nei rapporti inter-individuali. E non si tratta, per la verità, soltanto di aver dimenticato Tönnies, Simmel e Weber. Si tratta anche di aver perpetuato modelli di spiegazione del rapporto fra cultura e politica (fra la cultura politica dei singoli e il funzionamento del sistema politico) del tutto ideologici, come quelli proposti dalla political science americana degli anni Cinquanta e Sessanta, evitando così di confrontarsi con la sfida della ‘svolta culturale’. Per questo, la provocazione di Diamanti dovrebbe quantomeno aprire un dibattito che riesca finalmente a ‘prendere sul serio’ la cultura anche in campo politico e a fare i conti con tutte le residue scorie dell’ormai lontana infatuazione comportamentista.
Probabilmente, c’è però un passaggio, nel discorso di Diamanti, che appare poco convincente, o quantomeno poco chiaro. Si tratta in particolare dell’accusa che muove alla scienza politica di avere adottato una chiave di lettura «statologica» e di essere rimasta in sostanza una variante moderna della vecchia ‘scienza dello Stato’. Questo passaggio è poco convincente perché, per la verità, la scienza politica post-bellica, e sulla sua scia anche quella italiana, ha bandito persino dal proprio lessico la parola «Stato», preferendole l’espressione ‘sistema politico’. Naturalmente, la scienza politica ha continuato ad adottare una prospettiva centrata sulla dimensione ‘verticale’ della politica, ossia proprio sull’azione che il sistema politico esercita sulla società (e non viceversa), tanto che la linea di demarcazione fra scienza politica e sociologia politica poteva essere ritrovata proprio nel differente modo di guardare alle stesse cose. Con il passaggio, all’apparenza puramente lessicale fra lo ‘Stato’ e il ‘sistema politico’, la scienza politica innescava in realtà una serie di trasformazioni ben più profonde, destinate a imprimersi nel codice genetico della disciplina e a indirizzarne il percorso successivo. In termini estremamente sintetici, si può dire infatti che la scienza politica postbellica – una scienza politica che forse oggi non esiste neppure più – rimuoveva dal proprio campo analitico ciò che, a lungo, era rimasto il vero cuore della riflessione sui fenomeni politici, ossia i meccanismi della produzione, dell’accrescimento e della conservazione del potere. In connessione con una congiuntura articolata – di cui ho cercato di delineare alcuni tratti, in modo forse un po’ impressionistico, nella prima parte di Geometrie del potere. Materiali per la storia della scienza politica in Italia, Vita e Pensiero, Milano, 2005 – la scienza politica è riuscita a costruire un’identità specifica, fondata su una serie di confini con le discipline vicine: non solo con la sociologia politica, ma anche con la filosofia politica, con la storia e con le scienze giuridiche. Quell’operazione – che trovava il proprio saldo riferimento nell’ambizione del linguaggio politologico di essere ‘puro’, libero da qualsiasi incrostazione ideologica e filosofica – aveva fin dagli inizi delle evidenti implicazioni politiche, e non è affatto casuale che la scienza politica italiana abbia ingaggiato, fra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, una lotta senza quartiere contro le principali culture politiche italiane. Se oggi le premesse teoriche di quella ‘scienza politica’ sono state quantomeno profondamente ridimensionate, le conseguenze di quella genesi non sono affatto esaurite. Ma il problema non è tanto quello di una scienza «statologica», quanto piuttosto di una scienza che ha introiettato un’immagine dello Stato del tutto semplicistica, sovraccarica di strabordanti elementi normativi, e che ha finito col collocare la sagoma del ‘sistema politico’ in una sorta di vuoto pneumatico.
Certo ha ragione Diamanti nel prendere di mira l’enfasi della ‘democrazia del pubblico’ o la convinzione che le tradizioni politiche si siano dissolte nell’aria. Ma la responsabilità non sta tanto nel fatto di avere concentrato lo sguardo solo sul ‘vertice’ dello Stato, quanto nell’aver sposato acriticamente una visione del tutto irrealistica dello Stato, rimuovendo del tutto il problema del potere. Così, quando al termine della Guerra fredda quella rappresentazione stilizzata delle dinamiche interne al sistema politico è risultata inservibile, il discorso politologico ha iniziato a girare a vuoto, finendo col ricorrere alle spiegazioni più scontate. Il ‘senso comune’ dei politologi – non meno di quello delle massaie spesso dileggiate dai commentatori – ha così seguito, assecondato, propalato le più fruste mode ideologiche: di volta in volta, le idee che la globalizzazione avesse reso obsoleta la politica, che lo Stato si trovasse a ritirarsi dalla società per dare sfogo al libero gioco degli interessi privati, che l’Unione europea fosse una sorta di paradiso in terra capace di aprire a ogni comunità nazionale un futuro rigoglioso, che dopo l’11 settembre fossimo alle prese con un fatale scontro di civiltà e che il destino del mondo dipendesse dall’esito della sfida indirizzata all’Occidente da un manipolo di terroristi fanatici. Nel corso di questo profluvio di retorica e luoghi comuni, qualcuno – con uno sforzo degno di Vyšinskij – si è spinto addirittura a riconoscere nell’incerta architettura istituzionale europea la sagoma prepotente di una democrazia già ben delineata. Fino a che, dopo il 2008, tutto è sembrato crollare. E, allora, ci si è accontentati di riconoscere alla base della fine delle speranze della globalizzazione, del tradimento del sogno europeo o del declino degli Stati Uniti soltanto l’effetto (imprevedibile) della crisi dei mutui subprime.
Per quanto i rilievi di Diamanti siano più che legittimi e più che giustificati, la situazione è forse ancora più grave di quanto appaia dal suo caustico pamphlet. Perché ci si potrebbe chiedere cosa ha realmente da dire la scienza politica contemporanea sui processi di trasformazione dello Stato, sul mutamento radicale dei sistemi rappresentativo-elettivi occidentali, sulla modificazione strutturale dei rapporti fra economia finanziaria e Stato, sulla ridefinizione degli equilibri geopolitici e delle sue ricadute sui modelli sociali più consolidati. Sarebbe sin troppo generoso affermare che la scienza politica ha soltanto lambito tali questioni, e chiunque sfogli un manuale introduttivo alla disciplina – in cui l’«ambiente internazionale» compare fugacemente soltanto alla fine, un po’ come il bidello in aula quando suona la campanella – non può non rendersene conto senza troppe difficoltà.
Un critico dice che le ultime trenta annate delle riviste politologiche saranno utili nei prossimi anni solo come combustibile per qualche vecchia stufa. Probabilmente si tratta di un giudizio sin troppo severo. Ma è chiaro a tutti che le nuove generazioni dovranno faticare non poco a trovare qualcosa di utile in quelle migliaia di pagine. E che per loro non sarà così facile liberarsi di un ‘senso comune’ ormai insostenibile, senza chiedersi, al tempo stesso, se volgersi alla scienza politica per spiegare il mondo rimanga ancora una scelta di ‘buon senso’.

Damiano Palano

** Ilvo Diamanti, Gramsci, Manzoni e mia suocera. Quando gli esperti sbagliano le previsioni politiche, il Mulino, Bologna, 2012, pp. 118, euro 10.00.



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