sabato 23 luglio 2011

La democrazia dei buoni sentimenti. Il dialogo di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky

di Damiano Palano

«La felicità», scrisse Flaubert, «è una menzogna, la cui ricerca è causa di tutti i malanni della vita». Ed è probabilmente anche per questo che il recente volume di Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky, La felicità della democrazia. Un dialogo (Laterza, pp. 244, euro 15.00), ha attirato tanta attenzione, oltre ad alcune (spesso prevedibili) critiche. Forse, alcuni lettori hanno infatti sperato di ritrovare, nel confronto fra il direttore di «Repubblica» e il giurista torinese, il segreto per ricostituire quel rapporto tra politica e felicità che oggi appare quantomeno logorato. Ma, al tempo stesso, altri non hanno potuto evitare di storcere il naso proprio dinanzi all’ambizione – dichiarata dal titolo – di una democrazia capace di offrire non solo efficienza, buon governo, trasparenza o responsabilità, ma, addirittura, la felicità. Intervenendo sul dialogo di Mauro e Zagrebelsky, Gian Enrico Rusconi per esempio ha scritto: «Forse la felicità non dovrebbe essere nominata in democrazia. So che questa affermazione può apparire sospetta: qualcuno potrebbe scoprirvi un residuo di moralismo vecchia maniera – di quando la felicità sapeva di ‘peccato’. È stato così anche nella cultura del nostro Paese. Ma da quel tempo sono passate ormai tre, quattro generazioni nel nostro Paese, accompagnando la cosiddetta rivoluzione del costume. A un certo punto ‘la felicità’ venne fraintesa con ‘consumismo’, mettendo d’accordo i moralisti cattolici con quelli comunisti. Poi il consumismo si è rivelato un benefico indicatore socio-economico. Oggi la felicità, o meglio la ricerca, l’esibizione della felicità, assume forme così volgari e corrosive da richiedere energiche azioni di contrasto che non devono neppure più chiamarla per nome» (G.E. Rusconi, I nuovi diritti alla prova della democrazia, in «La Stampa», 9 maggio 2011, p. 33).
In effetti, è molto difficile non condividere il rilievo di Rusconi e non sottoscrivere lo spirito della sua annotazione. A ben vedere però, benché compaia nel titolo del volume, quel nesso – così evocativo, ma anche così problematico – fra democrazia e felicità compare solo nelle pagine finali del dialogo fra Mauro e Zagrebelsky, in modo peraltro piuttosto fugace. D’altronde, nelle scarne pagine conclusive in cui il tema viene affrontato, i due autori non sembrano neppure condividere la medesima posizione. Ed è soprattutto Mauro a insistere sulla necessità di istituire un nesso fra democrazia e felicità, nel senso che è proprio il direttore di «Repubblica» a proporre di ritrovare fra i compiti principali e più alti della democrazia il dovere di «rispondere addirittura alla grande questione della felicità» (p. 231). Mauro non intende la felicità nei termini della ricerca di una soddisfazione individuale, al di fuori delle regole, ma ritiene piuttosto che la felicità possa essere conseguita solo all’interno di un sistema di regole. Dato che, argomenta Mauro, «c’è vita nella democrazia, intesa come sistema di regole e di libertà», allora «è giusto e possibile cercarci anche la felicità, attraverso la libera realizzazione di se stessi, modulata nella consapevolezza degli altri, dei loro diritti, e nella possibilità di costruire un progetto comune di riconoscimento, che chiamiamo società politica, istituzionale, di cittadini» (pp. 232-233). Dinanzi a una simile proposta, Zagrebelsky in realtà sembra distanziarsi, almeno in parte, da Mauro, e tende così a collocare il «diritto alla felicità» sancito dalla Dichiarazione di Indipendenza americana all’interno di una costellazione filosofica e politica abissalmente distante da quella europea e dalla sensibilità contemporanea. Ma, ciò nonostante, non sfugge interamente alla proposta di Mauro, e per questo cerca di circoscrivere il significato della ‘felicità’. «Che cosa è la felicità» - si chiede - «questo sentimento fugace che subito, appena l’hai provato, si dissolve in angoscia per timore della perdita?» (p. 233). Per Zagrebelsky il significato più autentico della felicità deve essere ritrovato nella «soddisfazione per il dovere compiuto», e proprio qui si può allora individuare un legame tra felicità e democrazia. «Credo che possa esserci una grande felicità e forse anche noi, qualche volta, l’abbiamo provata. Ma non è certo la felicità di cui parla il nostro tempo, quando virtù e felicità sono state separate, anzi collocate agli antipodi» (p. 235). Ma, per questo, la democrazia può essere anche definita come «il modo più sopportabile di sopportare l’infelicità, cioè il modo più umano, compassionevole, conviviale, in una parola, mite, di organizzare l’infelicità dell’humana condicio, riducendo al minimo la prepotenza, il disprezzo, la sopraffazione e, soprattutto, distribuendone il peso sul maggior numero possibile in una specie di mobilitazione generale delle umane imperfezioni» (p. 235). Un tipo di regime, dunque, che non elimina l’infelicità, ma forse, osserva Zagrebelsky, la rende più sopportabile: «Tutti gli altri sistemi di governo degli esseri umani sono peggiori, più insopportabili, più infelici», ma la democrazia si mostra comunque superiore agli altri: «la democrazia, come tutti i governi, rende infelici gli esseri umani, ma molto meno degli altri. Quindi, è il più vicino alla non-infelicità, se non volgiamo arrivare a dire alla felicità. Così, in questo modo piuttosto rassegnato a ciò che la natura ci ha fatto essere, potrei dirmi d’accordo con te nel collegare felicità, vita, democrazia» (p. 236).
Naturalmente, l’approdo cui giungono Mauro e Zagrebelsky può lasciare insoddisfatti, sia perché si tratta di un risultato piuttosto esiguo rispetto alle attese che il titolo del volume fa presagire, sia per il contenuto stesso della proposta cui giungono. Ma, forse, si tratta di una conclusione inevitabile, date le premesse stesse del dialogo. In effetti, il vero cuore della conversazione non è rappresentato dalla relazione tra felicità e democrazia ma dal rapporto – non meno problematico – tra la parola «democrazia» e la cosa, ossia la concreta forma di regime che etichettiamo con questo nome. I due autori, nel Prologo, scrivono infatti: «Democrazia: la parola e la cosa. Tra questi due termini stanno le considerazioni raccolte nelle pagine che seguono. […] La parola democrazia sembra ora contenere tutto ciò che di buono, di giusto e di bello ci si può attendere dalla politica. Per questo ogni giustificazione dell’agire politico deve per forza richiamarsi alla democrazia. Questo è il lato della medaglia dove è iscritta e luccica la parola democrazia. Sull’altro lato della medaglia, c’è la cosa. Ciò che vi vediamo è la frustrazione continua e crescente delle aspettative alimentate dalla parola. Quello che brilla da un lato è opaco dall’altro» (p. 3). Ma, scrivono i due autori, presentando il loro confronto, l’intento è di concentrarsi soprattutto su un’analisi realistica della cosa, o, meglio, «di tener conto insieme dell’essere e del dover essere della democrazia» (p. 4). E il punto di partenza non può così non essere costituito dalla crescita della disaffezione, dalla registrazione di una condizione di malessere che – senza necessariamente dover apparire nella forma della ‘crisi’ – sembra investire le democrazie occidentali e, ovviamente, quella italiana in particolare (cui i due autori guardano in modo privilegiato). Questo malessere non ha però a che vedere soltanto con la percezione che i cittadini hanno della realtà politica, ma anche con un processo più complesso, ossia con una sorta di «scollamento», di «distacco», di «rovesciamento»: «La democrazia», secondo le parole di Zagrebelsky, «è sempre stata, finora, la rivendicazione degli inermi, degli esclusi, di quelli che contano poco o nulla e vogliono contare di più, vogliono farsi valere in società che li tengono ai margini. Istintivamente, significa contestazione delle concentrazioni di potere oligarchico attraverso diffusione e uguaglianza di partecipazione politica. […] Oggi, è così? Mi pare si debba constatare il contrario. Sono i detentori del potere (i dynàstai) a fare della democrazia – della parola democrazia – il proprio orpello, a invocarla per rendere indiscutibile il proprio potere sugli inermi. Quanti abusi di potere si giustificano ‘democraticamente’!» (p. 11).
Muovendo da questa condizione della democrazia di oggi, il dialogo si muove, a cerchi concentrici, toccando temi di stretta attualità e nodi classici della riflessione sul potere. Così, per esempio, Mauro e Zagrebelsky affrontano la questione dei diritti dei lavoratori, suggerita dagli accordi di Pomigliano d’Arco e Mirafiori, il tema del terrorismo e della sfida che esso pone alle procedure democratiche, il ruolo pubblico della Chiesa, oltre che, naturalmente, le trasformazioni della democrazia. Proprio a questo proposito, Mauro ritiene che la democrazia contemporanea – ma si riferisce in realtà alla democrazia italiana, o, più precisamente, alle forze politiche italiane di centro-destra – si avvicini a un «moderno populismo carismatico», che modifica la sostanza della politica. «La politica», secondo le parole di Mauro, «è diventata questo: uno spazio di potestà del Capo che parla al suo popolo in forma diretta, agisce saltando istituzioni e mediazioni, in un dialogo mai interrotto» (p. 165). Zagrebelsky, più che sottoscrivere l’idea di una transizione verso un neo-populismo, preferisce parlare di una ‘crisi’ di politica, che è una scomparsa della sostanza stessa della politica. «Il nostro Paese», osserva, «è in crisi di politica e questo spiega tante cose, a incominciare dalla diffusa indifferenza dei cittadini, dettata oggi non più da ragioni qualunquiste, ma dalla sfiducia nella politica come tale. La politica è libera scelta dei fini. Ma, oggi, dov’è questa libertà? Al massimo la politica esprime la gestione (buona o cattiva) dell’esistente. La gestione non scalda i cuori e può essere lasciata ai tecnici, ai burocrati […]. Ma se sotto la forma non si intravede la politica, qualche cosa tuttavia c’è, e non dovremmo farci ingannare dalle apparenze. A mio parere, la politica come rappresentazione tende a deviare da quello che c’è sotto, e sotto c’è il potere, il potere per il potere; il potere che per sua natura tende a diventare ‘smisurato’ […] perché questa è la logica del potere» (p. 165). E questo è in effetti il punto cruciale attorno al quale ruotano le considerazioni del giurista, dal momento che la crisi della democrazia scaturisce, a suo avviso, dalla crisi della politica. «La democrazia presuppone la politica. Se la politica è in crisi, è in crisi la sua forma, cioè la democrazia. La democrazia è forma di reggimento delle società umane in cui esiste libertà dei fini politici. Se la politica ha perduto questa libertà, è in crisi la democrazia. […] Se si perdono di vista i fini, perché non ci sono più o non li si riesce a definire, la democrazia perde valore. Se ciò che c’è, nell’essenziale, non può che essere così com’è, che senso ha ancora la democrazia?» (p. 204). Il riferimento ai fini, e soprattutto l’accenno alla libertà dei fini che contrassegna la democrazia, non è affatto incidentale nel discorso di Zagrebelsky, e non è dunque casuale che all’obiezione di Mauro – il quale ritiene che la perdita dei grandi ‘fini’ politici sia una conseguenza della ‘fine delle ideologie’ – il giurista ribatta: «Mi schiacci, con questa equiparazione tra fini e ideologie […]. È difficile rassegnarsi, soprattutto di fronte all’avvitamento del mondo su se stesso, che produce disuguaglianze, distruzione della natura, violenza, aggressioni per il possesso di risorse naturali che aiutino a tirare avanti ancora un poco. Questo, per me, è il regno dei fini: l’interrogazione su quello che ci si può aspettare ‘alla fine’» (p. 208).
Naturalmente, il  dialogo – che senza dubbio è stato rielaborato, ma che comunque si presenta come la trascrizione di una conversazione – si presta con difficoltà a essere letto in modo sistematico, e d’altronde i passaggi logici dei due interlocutori spesso sono labili, se non proprio evanescenti. Tanto che – in molti passi del libro – sembra di assistere, più che a una dotta discussione tra due influenti intellettuali di grande cultura e di profonde letture, a una conversazione ferroviaria in cui i più frusti luoghi comuni – così come le provocazioni di maniera – offrono, più che il modo migliore per cementare una compiaciuta convivialità, la strada più agevole per giungere senza traumi alla fine del viaggio. In effetti, a tenere insieme tutto il dialogo di Mauro e Zagrebelsky sono proprio i luoghi comuni, ed è anche per questo che l’accostamento fra democrazia e felicità finisce con l’apparire solo una maldestra operazione editoriale.
D’altronde, concepire la felicità come la «soddisfazione per il dovere compiuto» non rende questo sentimento meno fugace, e meno ingannevole, rispetto a quanto sottolineava Flaubert (e rispetto a quanto ritiene lo stesso Zagrebelsky), anche qualora si tenti di ancorarlo alla virtù, o, meglio, alla concezione della virtù. Come ben sapevano gli antichi, d’altra parte, il rapporto fra la virtù e la politica è tanto ambiguo, che la più elevata virtù politica – la virtù richiesta dalla città – qualche volta può richiedere persino una violazione di principi morali altrettanto fondamentali, come il rispetto della vita umana. Così, la «soddisfazione per il dovere compiuto» può certo richiamare alla mente l’etica del funzionario pubblico, o del politico che agisce secondo ferrei principi morali, e senza alcun riguardo per la salvaguardia dei propri personali interessi e dei propri legami familiari. Ma può anche richiamare alla mente il più estremo sacrificio che la comunità può richiedere al singolo, ossia il sacrificio della vita in battaglia, perché proprio in questo caso il cittadino è chiamato a difendere con la propria vita il bene collettivo della sicurezza. Almeno nell’iconografia patriottica, ciò che spinge, alimenta, legittima, il soldato a compiere azioni che, ovviamente, non commetterebbe in condizioni normali (o che sarebbero considerate come crimini efferati), è proprio il senso del dovere, il senso dell’appartenenza collettiva, la consapevolezza (o l’illusione) di svolgere una funzione essenziale, vitale per la vita della nazione. Così, è facile immaginare che la «soddisfazione per il dovere compiuto» fosse anche il sentimento con cui Adolf Eichmann chiudeva ogni giornata di proficuo lavoro. E, forse, si può persino sospettare che la medesima «soddisfazione per il dovere compiuto» fosse il anche la sensazione provata dall’equipaggio dell’Enola Gay, dopo aver sganciato su Hiroshima Little Boy, il primo ordigno nucleare, e dopo aver provocato in una manciata di secondi decine di migliaia di vittime. Il punto non è infatti che tutto ciò possa ripugnare – comprensibilmente – alla coscienza di molti, bensì che tutto questo abbia a che vedere proprio con quel nesso – sospetto ma suggestivo – tra democrazia e «felicità». A meno, ovviamente, di trasformare la democrazia – da una forma di regime creata dagli esseri umani e realmente esistente – nel culmine della storia universale, in una forma di organizzazione politica irriducibilmente diversa da tutte le altre conosciute nella storia, una forma di organizzazione politica capace di modificare in profondità la natura umana, e in grado anche di esercitare la violenza in modo ‘differente’ rispetto a ogni altro tipo di regime.
Ma non è questo l’unico limite che emerge con prepotenza dalle pagine di Mauro e Zagrebelsky. Non si tratta infatti solo della ricorrente, quasi estenuante, rincorsa dei luoghi comuni che rende ambiguo tutto il dialogo. Come in tutte le più classiche conversazioni ferroviarie, i luoghi comuni hanno infatti una funzione che non si risolve nello scambio di banalità. I luoghi comuni sono rassicuranti, sono effettivamente quel luogo – ‘comune’ a tutti, ma mai veramente di nessuno – in cui ci possiamo sentire tranquilli anche fuori dalle nostre pareti domestiche, anche nell’incontro con un estraneo di cui ancora non abbiamo misurato l’eventuale pericolosità, l’invadenza, le effettive intenzioni. Quando ci troviamo impegnati in una conversazione ‘forzata’ con una persona che non conosciamo (o che conosciamo solo molto superficialmente), ci tuffiamo bene o male in banalità sentite mille volte – proprio quelle banalità così insopportabili e così preziose che chiamano in causa le mezze stagioni, la campagna che non c’è più, i giovani d’oggi, i gelati di una volta, le estati torride di quando eravamo bambini, le bellezze sconosciute dell’Italia – proprio perché in questo modo possiamo valutare il nostro vicino su un terreno neutrale, senza mostrare troppo di noi stessi ma senza apparire ostili e neppure troppo invadenti. Inevitabilmente, però, in queste conversazioni ferroviarie manca qualcosa. Perché, quasi invariabilmente, proprio gli stessi protagonisti della conversazione si sforzano così tanto di schiacciarsi dietro i luoghi comuni, da scomparire del tutto.
Qualcosa di simile accade anche nel dialogo di Mauro e Zagrebelsky. Non certo perché i due conversatori si nascondano dietro i luoghi comuni, ma perché i luoghi comuni che intessono il loro dialogo occultano del tutto i soggetti reali delle trasformazioni politiche contemporanee. Per quanto il dialogo tocchi tutti i nodi della grande trasformazione odierna, è impossibile trovare nelle argomentazioni dei due protagonisti anche un semplice riferimento alle ‘cause’ reali della ‘crisi’ della democrazia, del disincanto democratico. È impossibile trovare cioè un accenno a qualche concreto soggetto politico, a qualche scontro reale, a qualche dinamica effettiva che, al di sotto del ‘teatrino della politica’, abbia comportato una modificazione così dirompente. Persino quando il dialogo si accosta al tema del lavoro, la sola causa che viene evocata è la ‘globalizzazione’, la parola magica che – regina incontrastata di tutti i luoghi comuni, e perno insostituibile tanto delle più triviali conversazioni ferroviarie, quanto delle più raffinare disquisizioni filosofiche – viene ad assolvere la funzione di un vero e proprio deus ex machina. E, così, i soggetti reali, i conflitti, i rapporti di potere – tutto quello che effettivamente riempie la ‘sostanza’ della politica, anche quando la politica sembra privata di sostanza – svaniscono del tutto. Per essere sostituiti, naturalmente, dai buoni sentimenti, dal perduto senso del dovere, o persino dalla felicità.
Non è certo inspiegabile che il dialogo di Mauro e Zagrebelsky abbia incontrato un notevole successo di pubblico e che abbia persino destato l’entusiastico plauso di lettori dai gusti raffinati come Luciano Canfora (L’autunno della democrazia senza ideali, in «Corriere della Sera», 5 maggio 2011, p. 43), Ida Dominijanni (Democrazia, il nome e la cosa, in «il manifesto», 25 maggio 2011, pp. 10-11), o Alberto Asor Rosa (Democrazia, legalità e felicità, in «il manifesto», 19 giugno 2011, p. 1). E non è neppure difficile profetizzare che le vendite del libro andranno ancora meglio nei prossimi giorni, perché il dialogo di Mauro e Zagrebelsky presenta tutti gli ingredienti del classico best seller da leggere sotto l’ombrellone. Immergendosi in tutti quei luoghi comuni, il lettore – o almeno un certo tipo di lettore – non può non sentirsi rassicurato dal fatto di essere in ottima compagnia. Non può non sentirsi gratificato da quelle considerazioni di buon senso – considerazioni che tutti prima o poi abbiamo espresso, o quantomeno pensato… – ma che, solennemente pronunciate con il contrappunto di citazioni di Kelsen, Dostoevskij, Bobbio, Einaudi, danno la sensazione di avere accesso a un cenacolo esclusivo, in cui la cultura porta con sé il dono di una dolente consapevolezza. E, infine, quello stesso lettore non può allora non uscire rinfrancato dalla lettura di Mauro e Zagrebelsky come dalla rinfrescante lettura di un thriller estivo, perché – dopo essersi tuffato negli orrori di una democrazia in decadenza – riesce finalmente a trovare quel  colpevole, di cui in fondo si era tutto capito fin dalla prima pagina. Ma anche per questo, come molti dei best seller balneari, il dialogo di Mauro e Zagrebelsky lascerà poco ai suoi lettori. La democrazia dei buoni sentimenti evocata dai due intellettuali rimarrà probabilmente sepolta in valigia, o si dissolverà al momento del ritorno a casa, insieme a tutti i buoni propositi invariabilmente pronunciati sulla battigia. E, forse, anche la promessa di felicità, che campeggia  solennemente su una copertina che riproduce gli articoli della Costituzione italiana, si rivelerà solo una lontana, illusoria, fuggevole, impressione estiva


Damiano Palano





sabato 16 luglio 2011

Quale ethos per la democrazia? I limiti dell'individualismo democratico

Esce in questi giorni, nel nuovo numero della rivista "Notizie di Politeia", XXVII (2011), n. 102, l'articolo di Damiano Palano Quale ethos per la democrazia? I limiti dell'individualismo democratico.


Il sommario del numero 102 di "Notizie di Politeia"

martedì 5 luglio 2011

L’ascesa del potere navale cinese. Un articolo di John Mearsheimer su «Vita e Pensiero»

di Damiano Palano

Quando nel 1987 Paul Kennedy pubblicò Ascesa e declino delle grandi potenze (Garzanti), il libro divenne immediatamente una sorta di best-seller. Ciò che attirò l’attenzione sul volume, innescando inevitabilmente qualche polemica (e molte critiche), non però il tentativo di comparare le dinamiche di ascesa e declino delle grandi potenze occidentali, ma la previsione formulata nell’ultimo capitolo del libro. Proiettandosi verso il XXI secolo, lo studioso inglese, docente di storia a Yale, profilava infatti l’ipotesi di un imminente declino degli Stati Uniti, causato da fattori come la perdita di competitività dell’economia americana, il forte indebitamento con l’estero e la dipendenza dalle importazioni di prodotti agricoli. Dinanzi a queste tendenze, sosteneva Kennedy, era inevitabile che si verificasse quello stesso meccanismo di overstretch che aveva condannato al declino la Spagna imperiale, intorno al 1600, e l’impero britannico, negli anni a cavallo del 1900. In modo analogo – prevedeva allora Kennedy – anche gli Stati Uniti sarebbero stati spinti sulla via del declino politico dall’«iper-estensione» degli impegni strategici, sempre meno sostenibili da parte del sistema economico.
Qualche anno prima, Kennedy aveva pubblicato un volume altrettanto importante, Ascesa e declino della potenza navale britannica (Garzanti, pp. 532, euro 35.00). In quel testo, lo storico inglese esplorava in profondità il medesimo meccanismo dell’overstretch a proposito dell’impero britannico. Ma riprendeva anche le vecchie tesi di Alfred T. Mahan, il contrammiraglio della marina americana considerato il fondatore del filone ‘navalista’ della geopolitica classica. In sostanza, Mahan aveva sostenuto che la conquista dell’egemonia mondiale dipendesse dal possesso della supremazia navale. E Kennedy riprendeva proprio quest’idea, considerando dunque l’ascesa dell’Impero britannico come un risultato della sua potenza navale. Ovviamente, alla base di questa supremazia stava anche una straordinaria espansione economica, garantita dalla rivoluzione industriale. Ma proprio il combinarsi della crescita economica con la costruzione dei nuovi velieri transoceanici consentì all’Impero britannico di conquistare e mantenere la supremazia mondiale fra il XVII secolo e la fine del XIX. Anche quella straordinaria potenza imperiale – come mostrava l’ancora oggi appassionante analisi di Kennedy – non poté però sottrarsi al fatale meccanismo dell’overstretch. L’ascesa economica di nuovi rivali iniziò infatti a corrodere le basi del vecchio impero, rendendo sempre più insostenibili gli impegni strategici britannici.
È piuttosto scontato che il lettore di oggi intraveda in filigrana nelle pagine di Kennedy un classico de te fabula narratur. In altre parole, è inevitabile vedere riflesse, nella storia dell’Impero britannico, le sequenze dell’ascesa americana e del suo – più o meno imminente – declino. Ma è proprio da questa tentazione che ha messo in guardia lo stesso Kennedy. Misurata con i criteri di Mahan – osservava Kennedy alcuni anni fa, nella presentazione alla nuova edizione del volume – la supremazia statunitense sui mari, garantita soprattutto dalle portaerei, è infatti ancora straordinaria, e inoltre non sembra affacciarsi alcun rivale credibile sotto il profilo strettamente militare. Ma, avvertiva anche: «la storia ha l’abitudine di sfatare quasi tutte le previsioni, e di produrre ribaltamenti che rendono obsoleti gli assunti comuni». D’altronde, «se la potenza navale statunitense appare sicura per molti anni ancora», secondo Kennedy «la posizione strategica complessiva del paese lo è molto meno». E due sarebbero i rischi principali. «Il primo, paradossalmente, sta nell’eccessivo logoramento dell’apparato militare americano dovuto al rapido ed estensivo intervento nel Medio Oriente, e poi nel territorio interno di cui parlava Mackinder», ossia in Asia centrale. «Il secondo pericolo sta nella vecchia nemesi che attende la potenza navale: la debolezza economica e fiscale». L’aspetto più problematico, dunque, non risiederebbe nelle strutture produttive e tecnologiche americane, ancora notevolmente competitive, ma nella fragilità finanziaria. «I deficit federali e statali, e il cronico squilibrio della finanza pubblica (dovuto non solo alle eccessive spese militari, ma anche al finanziamento della previdenza sociale e del Medicare, nonché al miglioramento delle infrastrutture e della sicurezza interna) prospettano una notevole precarietà nella conservazione dell’attuale egemonia americana nel lungo periodo».
Negli ultimi anni, Kennedy ha d’altronde sottolineato più volte – per esempio su «The National Interest» (luglio-agosto 2010) – che il declino degli Stati Uniti, pur considerato in una prospettiva non di breve periodo, è comunque un processo di cui tenere conto. «Questa nazione privilegiata – si è tentati di dire, sovraprivilegiata – possiede attorno al 4,6% della popolazione mondiale, produce circa un quinto della produzione mondiale, e, incredibilmente, punta a spendere più del 40% dell’intero esborso globale per la difesa». Proprio per questo, prima o poi, emergerà il classico problema dell’overstretch. «I grandi imperi, o le egemonie», avverte comunque Kennedy, «crollano raramente, per non dire mai, in modo rapido, spettacolare», ma piuttosto «declinano lentamente cercando di evitare collisioni, scartando gli ostacoli». In questo senso, la domanda principale non riguarda allora il declino in sé, sostanzialmente inevitabile, ma il modo con cui gli Stati Uniti affronteranno questo processo. E, soprattutto, quanto saranno disposti a concedere ai loro prossimi rivali. Rispolverando magari la vecchia, per molti versi screditata, prospettiva dell’appeasement.
Ovviamente, nel XXI secolo (e soprattutto dopo il 2008) il dibattito sul declino dell’egemonia americana si è ulteriormente arricchito, ed è anche tornato ad alimentare nuove polemiche. Una lettura interessante, che riprende a riflettere sul dominio spaziale e a battere in particolare sul tasto del potere navale, viene da un articolo di John Maersheimer, uno dei più importanti studiosi americani di Relazioni Internazionali, pubblicato sul numero in uscita in questi giorni della rivista «Vita e Pensiero» (3/2011),.
Nel panorama degli studi internazionalistici, Mearsheimer è noto soprattutto per il suo «realismo offensivo», una visione che riprende alcuni elementi del realismo classico e della riflessione geopolitica. Al contrario di quanto riteneva Hans Morgenthau, Measheimer pensa però che la ricerca del potere da parte delle grandi potenze determini non un comportamento difensivo, ma un comportamento offensivo. «I sostenitori del realismo offensivo», ha scritto nella Logica di potenza (Università Bocconi Editore, 2003), «sono convinti che il sistema internazionale costringa una grande potenza a massimizzare la propria sicurezza». In altri termini, «la sopravvivenza esige un comportamento aggressivo», e, dunque, «le grandi potenze si comportano aggressivamente non perché vogliano farlo o perché possiedano una pulsione interiore al dominio, ma perché sono costrette a cercare più potere se vogliono massimizzare le probabilità di sopravvivenza». Ovviamente, la proposta di Mearsheimer non può che incontrare più di qualche obiezione, anche perché lo scenario che dipinge confligge non poco con l’immagine di un sistema internazionale vincolato da istituzioni, organizzazioni, regole, sostenuta nel corso degli ultimi tre decenni da molti autori liberali. D’altronde, il mondo di Mearsheimer appare davvero come un mondo hobbesiano, dominato da una paura ineliminabile. «Le grandi potenze» – scrive ancora, in un passaggio importante della Logica di potenza – hanno paura l’una dell’altra. Si guardano con sospetto, paventano sempre una guerra all’orizzonte. Presentiscono il pericolo. Non c’è molto spazio per la fiducia tra stati. Certo, il livello di timore varia nel tempo e nello spazio, ma non può essere azzerato. Dal punto di vista di una grande potenza, tutte le altre sono potenziali nemiche». Dato che, secondo lo studioso americano, «la paura è il primus movens della politica mondiale», e dato che il sistema internazionale è privo di un’autorità superiore, l’unico modo con cui le grandi potenze possono garantirsi effettivamente la sopravvivenza è così l’autotutela. Ma, soprattutto, «gli Stati capiscono in fretta che il modo più sicuro per assicurarsi la sopravvivenza è diventare il più potente Stato del sistema», perché, «quanto più forte è uno Stato rispetto ai suoi potenziali rivali, minori saranno le probabilità che uno di questi lo attacchi mettendone a repentaglio la sopravvivenza».
Questi assunti teorici indirizzano anche le ipotesi avanzate da Mearsheimer sull’ascesa della Cina e sul ruolo degli Stati Uniti nella politica mondiale. E il dato più importante su cui si concentra è la previsione di una notevole crescita della competizione sino-americana, una crescita che, nei prossimi anni, sarà all’origine di nuovi rischi di conflitto. L’idea di fondo – e, con l’ottica del «realismo offensivo», non potrebbe andare diversamente – è che la crescita economica della Cina sia destinata a determinare un mutamento anche nella sua politica estera. E che Pechino sia dunque destinata ad abbandonare la linea pacifica e accomodante degli ultimi decenni, per diventare più aggressiva. Ma, se da un lato la Cina incomincerà a diventare più aggressiva, dall’altro, la maggior parte dei suoi vicini tenderanno a collaborare con la potenza americana in vista di un contenimento del potere di Pechino. E, infine, anche gli Usa diventeranno più aggressivi, almeno nella regione Asia-Pacifico.
I motivi alla base della previsione di Maersheimer coincidono, in fondo, con i presupposti del suo «realismo offensivo». Sebbene la Cina abbia fino ad ora portato avanti una linea sostanzialmente pacifica in politica estera, questo atteggiamento non è destinato a durare ancora a lungo. L’obiettivo di una maggiore sicurezza che Pechino perseguirà nei prossimi anni, e che può d’altronde già rinvenirsi nel rafforzamento della Marina, condurrà verso un’aggressività sempre più esplicita. «Per ragioni strategiche» - scrive Mearsheimer, «la Cina cercherà di massimizzare il divario di potenza tra lei e gli avversari più temibili, a cominciare dall’India, dal Giappone e dalla Russia. La Cina vorrà avere la certezza di essere abbastanza potente perché nessuno desideri attaccarla». Se da un lato è piuttosto improbabile che abbia la possibilità do conquistare effettivamente altri Stati, dall’altro è invece plausibile che Pechino punti a raggiungere una sorta di egemonia regionale, che fissi ovviamente anche dei limiti ben precisi al ruolo degli Usa nell’Asia-Pacifico. In altre parole, secondo Mearshemer, «è più probabile, invece, che voglia potere chiarire ai suoi vicini che esistono limiti da non superare, pressappoco come gli Stati Uniti hanno chiarito agli altri paesi delle Americhe che in certi casi si riservavano l’ultima parola».
Per questi stessi motivi, dato che nessuno Stato può appellarsi a un’autorità suprema per tutelare la propria sicurezza, gli Stati Uniti non abbandoneranno l’Asia-Pacifico, ma tenteranno di ostacolare l’ascesa cinese. E, probabilmente, troveranno alleati – vecchi e nuovi – in tutti quegli Stati che, nella regione, guarderanno con sempre più sospetto alle mire egemoniche cinesi. In sostanza, dunque, «la maggior parte dei vicini della Cina finiranno quindi con l’entrare nella coalizione a guida americana destinata a frenare l’ascesa della Cina, proprio come durante la guerra fredda la Gran Bretagna, la Francia, la Germania, l’Italia, il Giappone e perfino la Cina comunista unirono le forze per arginare l’Unione Sovietica».
Ma l’aspetto forse più interessante del ragionamento di Mearsheimer risiede, probabilmente, proprio nell’attenzione alla conquista di un rilevante potere navale da parte di Pechino. La Cina, sostiene Mearsheimer, dovrà infatti cercare di estendere il controllo marittimo nella regione, per una molteplicità di ragioni, la principale delle quali chiama in causa l’importazione di petrolio. Se oggi la Cina è infatti fortemente dipendente dal petrolio mediorientale, è difficile ipotizzare che nei prossimi decenni – in coincidenza con ritmi di sviluppo economico così elevati – tale dipendenza possa ridursi in modo significativo. E, benché sia allo studio la costruzione di oleodotti, la via ancora più economica è rappresentata dal trasporto marittimo. Ma, a questo proposito, Measheimer segnala l’importanza di un ostacolo geopolitico che la Cina non può aggirare così agevolmente. I passaggi marittimi fra il Mar Cinese meridionale e l’Oceano indiano sono infatti principalmente tre, e la Cina ha assoluta necessità di poter disporre di almeno uno di essi.  «Le navi cinesi possono passare dallo Stretto di Malacca, situato tra l’Indonesia, la Malaysia e Singapore, o spingersi più a sud e percorrere lo Stretto di Lombok o lo Stretto della Sonda, ambedue in Indonesia, tornando in mare aperto nell’Oceano Indiano non lontano dalla parte nordoccidentale dell’Australia». La Cina, però, non potrebbe probabilmente disporre dello Stretto di Malacca in occasione di un conflitto con gli Usa, per la vicinanza di Singapore, solido alleato americano. Per questo motivo – che gli strateghi cinesi identificano come «dilemma di Malacca» – Pechino deve guardare soprattutto a Lombok e alla Sonda, e cioè agli stetti che attraversano l’Indonesia. Ciò, però, avrà un effetto estremamente rilevante, non solo per l’Indonesia, ma anche per l’Australia. La necessità di controllare i mari indonesiano, in altre parole, non può che indirizzare l’espansione navale cinese verso l’Australia. «I passi che la Cina muoverà per neutralizzare la minaccia alle sue rotte rappresentata dall’Australia – e, non dimentichiamolo, parliamo di una Cina futura molto più potente di quella attuale – spingerà senz’altro Canberra a collaborare strettamente con Washington per contenere la Repubblica Popolare». Così, l’ascesa del potere navale cinese dovrà – almeno secondo questa lettura – innescare una serie di conseguenze estremamente rilevanti per l’Australia. Ma, soprattutto, non potrà che aumentare notevolmente i rischi di conflitti in un’area per Pechino sempre più strategica.

Damiano Palano

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